A bordo di Mare nostrum, alla ricerca di rifugiati in pericolo nel Mediterraneo

31 Agosto 2014

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Matteo de Bellis, campaigner nel team Europa al Segretariato Internazionale di Amnesty International, è stato per alcuni giorni a bordo della fregata Virginio Fasan per seguire le attività di ricerca e soccorso in mare dell’operazione Mare nostrum.

Sulla Virginio Fasan

La fregata italiana Virginio Fasan ormeggiata nel porto di Augusta, in Sicilia, prima di ritornare in mare per cercare persone in pericolo, 10 agosto 2014 © Amnesty International
Nel pieno della stagione turistica, la Sicilia offre a molti spiagge soleggiate, ottimi piatti di pesce e sere allietate dalla brezza. Ma migliaia di coloro che sono diretti verso la Sicilia in questo periodo non cercano tutto questo. Fuggono per cercare di salvarsi la vita, lasciandosi alle spalle conflitti, persecuzione e povertà. Sono quegli uomini, quelle donne, quei bambini – per lo più originari della Siria e dell’Africa subsahariana – che salgono su imbarcazioni inadatte alla navigazione e stracariche alla ricerca di asilo e  di una vita migliore in Europa. Sono centinaia ogni settimana, in partenza soprattutto dalle coste della Libia. Ogni viaggio può essere l’ultimo. Sappiamo che quest’anno sono annegate in mare oltre 1000 persone e che il numero effettivo potrebbe essere molto più alto (NdT: naufragi successivi alla pubblicazione di questo blog hanno portato il numero delle persone annegate in mare a oltre 1800). Il nostro viaggio nella direzione opposta inizia la sera del 10 agosto dal porto di Augusta, nella Sicilia orientale. Sono insieme agli ufficiali e ai marinai della fregata Virginio Fasan. La loro missione è chiara: salvare il maggior numero possibile di vite umane. Ho ottenuto l’autorizzazione a trascorrere alcuni giorni con loro per assistere alle operazioni di soccorso di uomini, donne e bambini  in viaggio nel Mediterraneo. Il tramonto è splendido, mentre già si alza un’affascinante luna piena. La navigazione inizia sotto lo sguardo imponente e silenzioso del vulcano Etna. È la notte di San Lorenzo, quella delle stelle cadenti e dei desideri da esprimere ogni volta che se ne avvista una. Noi stiamo cercando di avvistare qualcosa di molto più concreto nelle acque scure. “È bene che ci sia la luna piena” – mi dice un ufficiale. “Di notte è più facile vedere le persone in mare”.
Oltre 100.000 persone soccorse
Augusta, Sicilia: 201 uomini, donne e bambini sbarcati dopo essere stati salvati in mare dalla Virginio Fasan, 10 agosto 2014. © Amnesty International
Mentre lasciamo le acque italiane sappiamo che un’imbarcazione di persone disperate ha probabilmente già lasciato la Libia, diretta a nord su una rotta speculare alla nostra. Sappiamo anche troppo bene che non potrebbe farcela se non fosse per l’impegno messo in campo dalla Marina italiana attraverso l’operazione Mare nostrum. Quasi ogni giorno, migranti e richiedenti asilo vengono soccorsi in mare e sbarcati in vari porti dell’Italia meridionale. Sono state salvate oltre 100.000 persone dall’ottobre 2013, quando – a seguito dell’indignazione popolare dopo i naufragi al largo di Lampedusa che costarono la vita a oltre 500 persone, inclusi molti bambini – è stata avviata l’operazione Mare nostrum. Prima d’imbarcarmi sulla Virginio Fasan, ho parlato con molti uomini, donne e bambini che erano appena arrivati via mare dalla Libia. Mi hanno raccontato le violenze subite durante il viaggio verso la Libia e in Libia, la paura avuta durante i difficili e talvolta tragici viaggi in mare, gli amici e parenti che non ce l’hanno fatta. Le violazioni dei diritti umani che vanno avanti senza sosta nei loro paesi di origine, come la Siria e l’Eritrea, e anche nei paesi di transito come la Libia, stanno spingendo migliaia di persone a imbarcarsi per l’Europa. Nonostante i grandi risultati e il sacrificio personale di coloro che stanno portando avanti l’operazione Mare nostrum, in mare si continua a morire. L’ultimo caso me lo hanno raccontato due siriani che ho incontrato a Catania. Il 2 agosto, 18 ore dopo la partenza dal porto libico di Zuara, la loro imbarcazione con oltre 600 persone a bordo si è rovesciata. La Marina italiana, che ha soccorso 268 persone e ha recuperato i corpi di una donna e di un bambino a 40-50 miglia dalle coste libiche, parla di un numero di naufraghi inferiore. La reale dimensione di questa e di altre tragedie simili sono ancora da determinare ma quello che è certo è che decine di famiglie restano in attesa di una telefonata dei loro cari che non arriverà mai. Intanto, la maggior parte dei governi europei continua a tenere gli occhi chiusi. Potrebbero ridurre il numero di coloro che rischiano la vita nei pericolosissimi viaggi lungo il Mediterraneo centrale fornendo visti alle persone in fuga dai conflitti che vogliano chiedere protezione in Europa e consentendo a un numero maggiore di rifugiati il reinsediamento e i ricongiungimenti familiari. Fino a quando tutto questo non accadrà, i governi europei dovranno iniziare a trovare risorse per aumentare le operazioni di ricerca e soccorso in mare e lavorare congiuntamente per coordinarle. L’Italia non può farlo da sola.
Solo una questione di tempo
Finalmente salvi: persone salvate in mare, a bordo della fregata italiana Virginio Fasan, 14 agosto 2014 © Amnesty International
Quando lo incontro, l’equipaggio della Virginio Fasan ha appena fatto scendere 210 uomini, donne e bambini soccorsi giorni prima. Ora c’è un po’ di tempo per rilassarsi e, sul ponte principale, l’atmosfera è leggera: musica, pizza, un attimo per parlare con calma e poi quattro o cinque ore di sonno – un fatto raro durante le operazioni di soccorso – per scaricare lo stress e ricaricare le batterie. Ma lunedì mattina arriva rapidamente. La Virginio Fasan raggiunge l’area del Mediterraneo centrale che deve pattugliare. Il mare è calmo ma il personale di bordo diventa più serio:  non c’è tempo per chiacchiere. Apprendiamo che un’altra nave della Marina ha appena sbarcato a Reggio Calabria oltre 1700 persone soccorse in mare. Sappiamo che un’altra richiesta di soccorso arriverà, presto o tardi. È solo una questione di tempo. In effetti, arriverà mercoledì. Ci troviamo nelle acque tra Lampedusa, la Tunisia e la Libia. La Virginio Fasan è la nave più grande in questa zona e prenderà a bordo persone soccorse da navi più piccole e le sbarcherà tutte insieme. L’elicottero della nave dev’essere sottoposto a uno dei test periodici e il pilota m’invita a salire per fare un volo verso Lampedusa. L’isola rimane un avamposto lungo la frontiera europea ma dall’inizio dell’operazione Mare nostrum la situazione è più calma. Le persone soccorse in mare vengono trasferite direttamente in Sicilia o nella penisola. Arriva un messaggio urgente: altre navi stanno soccorrendo persone in difficoltà e la Virginio Fasan si sta dirigendo verso di loro a tutta velocità. L’elicottero deve tornare a bordo senza allontanarsi ulteriormente. Una volta tornati a bordo, la situazione si rivela complicata. Un’imbarcazione della Guardia costiera  è a poche centinaia di metri da noi con 500 persone appena prese a bordo. Due hanno bisogno di cure mediche urgenti, e il personale sanitario della Virginio Fasan sale immediatamente sull’elicottero per prestargliele. Una persona ha una sospetta lesione alla spina dorsale. Sopravvivrà. Nel frattempo, una nave commerciale ha soccorso 727 persone. Quando stiamo apprestandoci a prenderle a bordo, arriva un Sos da un’altra imbarcazione, che si trova a 25 miglia nautiche da noi. Dobbiamo trovarla immediatamente. Arriviamo nella zona in un’ora ma non la troviamo. Si fa buio e la luna non è ancora sorta. La Virginio Fasan continua a pattugliare, gli ufficiali scrutano l’orizzonte. Mi sforzo di pensare positivamente: forse la posizione della nave era errata, forse è stata soccorsa da un’altra nave. Forse…
A piedi nudi e tremanti di freddo
Persone vengono portate da un gommone vengono a bordo della nave italiana © Amnesty International
A mezzanotte il comandante decide di rientrare: dobbiamo ancora prendere a bordo le 727 persone. L’operazione viene eseguita con due gommoni, una dozzina alla volta, le famiglie per prime. Alcuni di loro sono a piedi nudi, alcuni bambini tremano di freddo. Non parlano molto e i loro volti sono tesi. La poppa della Virginio Fasan è trasformata in una “zona rossa”, dove può accedere solo l’equipaggio autorizzato, con guanti e mascherine di protezione. Il ponte gradualmente si riempie di uomini seduti o sdraiati l’uno accanto all’altro. Vengono allestiti due hangar: uno per le famiglie, l’altro per chi ha necessità di cure mediche. Ci sono alcuni feriti ma per fortuna nessuno ha bisogno di trattamenti urgenti. Il trasferimento dura tutta la notte. Alcuni uomini dell’equipaggio mi fanno la stessa domanda: da che razza di miseria stanno scappando queste persone per affrontare un viaggio così pericoloso? La mattina seguente prendiamo a bordo altre 277 persone soccorse da tre navi. All’ora di pranzo, il ponte ospita 1004 persone provenienti da Siria, Somalia, Gambia, Bangladesh e altri paesi. Ognuna di esse riceve acqua e cibo e una coperta fatta di materiale sintetico che pare un foglio d’alluminio. Ci si mette in fila per il bagno. I bambini giocano. Quando Lampedusa appare all’orizzonte, un membro dell’equipaggio mi dice che è proprio questo il punto in cui, il 3 ottobre 2013, annegarono 366 persone, per lo più rifugiati eritrei e somali, tra cui molti bambini. Molti corpi sono ancora intrappolati nel relitto o giacciono in fondo al mare, come quelli di un uomo e di una donna, ancora abbracciati l’uno all’altra.
“Morirò, morirò”
Parlo con alcune delle persone soccorse. Mohammed, 30 anni, proveniente da Damasco, è fuggito dalla Siria per evitare il servizio militare. La sua imbarcazione è partita dal porto libico di Zuara: “Di notte ci hanno portato con una barca piccola su una di legno più grande. Ci hanno detto che poteva contenere 300 persone ma in effetti eravamo 650. Eravamo senza bussola, senza telefono satellitare  e cellulari, la nostra unica speranza era che una nave più grande arrivasse a salvarci. A volte pensavo ‘Morirò, morirò’. L’Italia sta contribuendo a salvare migliaia di persone della Siria e di altri paesi. Magari un altro paese europeo dovrebbe aiutarla”.
Wassim, 40 anni, un altro siriano ma di Aleppo, ingegnere civile: “Siamo 200 siriani, la metà sono donne e bambini. Nel mio paese non si può più vivere, non c’è futuro. Siamo arrivati in Algeria e da lì in Libia, attraverso il deserto. Abbiamo navigato per 10 ore. Vorrei andare in Svezia o in Norvegia, per i miei figli. In Algeria ho ancora tre bambini e mia moglie”. Un gruppo di donne somale, le loro chiacchiere, le loro risa, i loro coloratissimi vestiti tradizionali, attirano la mia attenzione. Mi mostrano i segni dei colpi che dicono di aver ricevuto dalla polizia libica. Un ragazzino del Gambia, di soli 16 anni, mi dice che avrebbe voluto tornare a casa per fuggire dalla violenza in Libia ma la strada era bloccata. “Ecco perché siamo qui. Quando ieri ho visto la nave, ero molto felice, era come se avessi visto mia madre o mio padre. Voglio ringraziare tutti gli italiani”. Molte altre persone esprimono gratitudine alla Marina italiana per averle soccorse in mare. Sanno che se Mare nostrum si fermerà senza che venga avviata un’altra operazione europea di ricerca e soccorso in mare, molte meno persone arriveranno in Europa. Non tanto perché non vorranno più rischiare il viaggio, ma piuttosto perché molti di più moriranno in mare. Si fa sera e occorrono altre coperte, altra acqua, altro cibo. L’equipaggio cerca di soddisfare tutte le richieste ma gestire così tante persone in uno spazio limitato è chiaramente un’impresa.
L’Europa non protegge le persone
Persone salvate nel Mediterraneo ricevono aiuto a bordo della Virginio Fasan © Amnesty International
Venerdì mattina vediamo all’orizzonte Capri e il golfo di Napoli, un panorama mozzafiato che da secoli attira tanti turisti. Ora a vederlo sono visitatori che, dopo un lungo e drammatico viaggio, arrivano a Napoli per chiedere protezione all’Europa. Sul molo, ad attendere gli 848 uomini, le 102 donne e i 54 bambini pronti a sbarcare, la polizia, la Croce Rossa e altre persone. È stato allestito un ampio tendone. Le procedure di verifica e identificazione durano ore prima che tutti possano salire sui pullman per essere trasferiti a vari centri nella regione. Mohammed e Wassim probabilmente rimarranno in Italia giusto il tempo per organizzare il loro viaggio verso l’Europa del Nord. Forse le donne somale faranno la stessa cosa. I ragazzini del Gambia probabilmente si fermeranno in Italia, dove le condizioni di accoglienza sono spesso cattive e il rischio di finire nelle mani della rete dello sfruttamento lavorativo è elevato. Anche io scendo a terra. Con un gesto rispondo al saluto che due ufficiali mi lanciano dal ponte. Hanno poche ore per pulire la nave e riprendersi da due nottate praticamente insonni. I cuochi prepareranno la pizza. Poi si riprenderà il mare, di nuovo alla ricerca di persone costrette a rischiare le loro vite in cerca di quella protezione cui hanno diritto. Ancora una volta, mettendo un cerotto su un taglio largo e profondo come il mare, che mette a nudo l’incapacità dell’Europa di tenere fede ai valori umanitari di cui va fiera.