Ottavo detenuto morto a Guantánamo: occorre indagare

20 Maggio 2011

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Amnesty International ha sollecitato un’inchiesta esauriente, indipendente e diretta da personale civile sulla morte di un detenuto di nazionalità afgana di 37 anni, Inayatollah, trovato privo di vita mercoledì 18 maggio all’interno della base navale statunitense di Guantánamo Bay.

Secondo le autorità militari statunitensi, il personale di sorveglianza del centro di detenzione, dopo aver rinvenuto Inayatollah ‘non reagente agli stimoli e privo di respirazione’, ha concluso che si è trattato di ‘un apparente suicidio’.

Il Servizio per le indagini penali della Marina ha avviato un’inchiesta per determinare cause e circostanze della morte di Inayatollah. Tuttavia, secondo Amnesty International, in precedenti occasioni indagini del genere hanno mostrato mancanza d’indipendenza e di trasparenza.

Il Pentagono ha reso noto che Inayatollah era stato trasferito a Guantánamo nel settembre 2007, uno degli ultimi arrivati nel centro di detenzione, a causa della sua ‘elevata posizione in al Qaeda’. Vi aveva trascorso quasi quattro anni senza accusa né processo.

Dall’apertura di Guantánamo, nel gennaio 2002, sono morti otto detenuti. Secondo le autorità militari statunitensi, prima di Inayatollah, si erano suicidati cinque detenuti: Mane’i bin Shaman al-‘Otaybi e Yasser Talal al-Zahrani, cittadini dell’Arabia Saudita, nel 2006; Salah Ahmed al-Salami, cittadino dello Yemen, sempre nel 2006; Abdul Rahman Ma’ath Thafir al-Amri, cittadino saudita, nel 2007; Mohammed Ahmed Abdullah Saleh al-Hanashi, cittadino yemenita, nel 2009. Molti altri avrebbero tentato il suicidio. Altri due detenuti, due cittadini dell’Afghanistan, sarebbero deceduti per cause naturali: Abdul Razzak nel 2008 e Awal Gul nel 2011.

Amnesty International ha chiesto che la famiglia di Inayatollah riceva tutte le informazioni sulla sua morte, sulle indagini intraprese e su ogni altro provvedimento adottato all’indomani del rinvenimento del suo cadavere.

L’organizzazione per i diritti umani ritiene che i familiari di tutte le persone decedute a Guantánamo debbano avere accesso a un rimedio giudiziario, compreso un risarcimento, per le violazioni dei diritti umani – come la detenzione arbitraria, la tortura e i trattamenti e le pene crudeli, disumane e degradanti – cui i loro congiunti sono stati sottoposti durante gli anni trascorsi sotto custodia statunitense.

Amnesty International continua a chiedere agli Usa di sottoporre a un processo equo dinanzi a un tribunale indipendente tutte le persone ancora detenute a Guantánamo o altrimenti rilasciarle.