Come gli algoritmi di Facebook hanno promosso la violenza contro i rohingya in Myanmar: il nostro nuovo rapporto

29 Settembre 2022

© Amnesty International (Photo: Ahmer Khan)

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S’intitola “Atrocità social: Meta e il diritto dei rohingya a una riparazione” il rapporto pubblicato il 29 settembre da Amnesty International e basato in parte sui “Facebook Paper”, una serie di documenti interni resi pubblici dalla whistleblower francese Frances Haugen.

Il rapporto denuncia come gli algoritmi di Facebook, la piattaforma di cui è proprietaria l’azienda Meta, abbiano contribuito ai crimini perpetrati nel 2017 dalle forze armate di Myanmar contro la già perseguitata minoranza dei rohingya, prevalentemente musulmana, residente nello stato settentrionale di Rakhine.

Quell’anno, la campagna di pulizia etnica causò migliaia di uccisioni, torture e stupri e diede luogo a uno sfollamento di massa di circa 700.000 persone.

Negli anni precedenti, utenti legati all’esercito e ai gruppi ultranazionalisti buddisti di Myanmar avevano riempito Facebook di contenuti anti-musulmani e di fake news, come quelle che i rohingya fossero “invasori” e che stessero preparando un colpo di stato di matrice islamista.

In un post condiviso oltre 1000 volte, un difensore dei diritti umani dei rohingya era stato descritto come “traditore della nazione” e minacciato di morte. In uno dei commenti, si leggeva: “Questo è un musulmano. I musulmani sono cani che devono essere uccisi”. In un altro: “Non lasciamolo vivo. Eliminiamo tutta la sua razza. Il tempo sta scadendo”.

Lo stesso capo delle forze armate dell’epoca, il generale Min Aung Hlaing, oggi a capo della giunta golpista che ha preso il potere nel febbraio 2021, aveva scritto in un post: “Dichiariamo apertamente che nel nostro paese non c’è alcuna razza rohingya”.

Nel 2014 Meta aveva provato a sostenere un’iniziativa di segno positivo, chiamata “Panzagar” o “discorso dei fiori”, creando un pacchetto di sticker a disposizione degli utenti per rispondere a contenuti d’odio. Gli sticker, a forma di fiore, contenevano frasi come “Pensaci prima di condividere” o “Non essere la causa della violenza”.

Ma gli effetti erano stati contrari alle intenzioni: gli algoritmi avevano interpretato l’uso degli sticker come segno di approvazione sotto ai post contenenti discorso d’odio. Risultato: invece di far diminuire il numero delle persone che visualizzavano i post che istigavano all’odio, questi diventavano ancora più visibili.

Secondo la Commissione delle Nazioni Unite di accertamento dei fatti, “il ruolo dei social media è stato importante” nelle atrocità commesse in Myanmar contro i rohingya.

Tra il 2012 e il 2017 Meta aveva ricevuto ripetute comunicazioni e visite da parte di attivisti locali per i diritti umani che l’avevano messa in guardia su quanto stava accadendo. L’azienda non aveva recepito l’allarme e non aveva applicato, quando sarebbe stato fondamentale applicarle, le sue politiche sul discorso d’odio.

In sintesi, Meta sapeva o avrebbe dovuto sapere che, nel periodo precedente la campagna di pulizia etnica, gli algoritmi avevano favorito l’enorme diffusione di contenuti pieni di odio contro i rohingya, ma non vi pose rimedio, preferendo continuare a fare profitti.

Per questo, in occasione del primo anniversario dell’assassinio di Mohib Ullah, presidente della Società per la pace e i diritti umani dei rohingya dell’Arakan, tra coloro che più si erano battuti per chiamare Meta a rispondere delle sue azioni, Amnesty International ha chiesto all’azienda di soddisfare le richieste di risarcimento dei rohingya.

Ad esempio, i leader delle comunità rifugiatesi in Bangladesh, dove tuttora vivono precariamente, chiedono da tempo a Meta di istituire un fondo di un milione di dollari per sviluppare progetti educativi nel campo di Cox’s Bazar. Quella somma rappresenta lo 0,002 per cento dei profitti realizzati da Meta, 46,7 miliardi di dollari, dal 2021.

Ciò nonostante, la prima risposta di Meta è stata imbarazzante: “Facebook non s’impegna direttamente in attività filantropiche”.

Se questo rifiuto continuerà, come si dice “ci si vedrà in tribunale”. Due richieste di risarcimento sono state già presentate negli Usa e nel Regno Unito e la situazione è stata posta all’attenzione del Contatto nazionale degli Usa per l’applicazione delle Linee guida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sulle imprese multinazionali.