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Turchia, Amnesty International denuncia: “Quasi 130.000 licenziati dal settore pubblico ancora attendono giustizia”
Trascorsi oltre due anni dal loro ingiusto licenziamento, quasi 130.000 lavoratori del settore pubblico in Turchia attendono ancora giustizia e hanno di fronte a loro un destino incerto.
È quanto ha denunciato oggi Amnesty International nel rapporto “Purga senza ritorno? Nessun rimedio per i lavoratori licenziati nel settore pubblico in Turchia”.
Medici, funzionari di polizia, insegnanti, accademici e decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico sono stati licenziati per presunti “legami con organizzazioni terroristiche” e attendono ancora di essere reintegrati o risarciti.
La “Commissione d’inchiesta sullo stato d’emergenza” (la Commissione) istituita a seguito di crescenti pressioni politiche dal governo nel gennaio 2017 per riesaminare i licenziamenti tramite decreto è del tutto inadeguata allo scopo.
“Definite ‘terroristi’ e private dei loro mezzi di sostentamento, decine di migliaia di persone la cui vita personale e professionale è stata distrutta attendono ancora giustizia”, ha dichiarato Andrew Gardner, direttore della strategia e della ricerca sulla Turchia di Amnesty International.
“Nonostante la chiara natura arbitraria dei licenziamenti, la Commissione sta di fatto mettendo automaticamente il timbro agli ingiusti provvedimenti originari. L’intera procedura è un vergognoso affronto alla giustizia”, ha aggiunto Gardner.
Ai sensi dello stato d’emergenza seguito al tentato colpo di stato del luglio 2016, quasi 130.000 lavoratori del settore pubblico sono stati licenziati in modo arbitrario sulla base di decreti.
Attività innocue e all’epoca del tutto lecite sono state usate dalla Commissione per giustificare retroattivamente i licenziamenti e i divieti permanenti di trovare nuovi impieghi nel settore pubblico o addirittura di esercitare la medesima professione.
Azioni come depositare soldi in una certa banca, appartenere a un determinato sindacato o scaricare una specifica applicazione per lo smartphone sono state usate come prove di “legami” con gruppi “terroristici” messi al bando, senza alcuna ulteriore prova di tali “legami” o di altri comportamenti criminali.
Dopo la nomina della Commissione, 125.000 lavoratori licenziati hanno presentato ricorso. Al 5 ottobre 2018 erano stati esaminati solo 36.000 casi e solo nel 7 per cento di essi (2300) il licenziamento era stato annullato.
Il rapporto di Amnesty International, che comprende l’analisi delle procedure della Commissione e di 109 sue decisioni così come interviste a 21 lavoratori licenziati e alle loro famiglie, conclude che la Commissione non ha poteri di fornire un rimedio efficace, manca d’indipendenza e di salvaguardie che consentano ai ricorrenti di rigettare le accuse, ha lunghi tempi d’attesa e si basa su prove labili per confermare i licenziamenti.
“Ci hanno licenziato senza motivo e ora stanno cercando delle scuse per giustificarlo”, ha dichiarato ad Amnesty International un insegnante licenziato per aver depositato soldi nella Bank Asya, all’epoca controllata dal governo e il cui ricorso è stato respinto dalla Commissione.
Nei casi analizzati da Amnesty International, i ricorrenti hanno dovuto attendere la decisione della Commissione oltre sette mesi nei migliori dei casi e 21 mesi nei peggiori. La vasta maggioranza dei ricorrenti, dopo oltre due anni, è ancora in attesa di una decisione.
Le persone che ricorrono alla Commissione entrano in un incubo dal sapore kafkiano. Quando i lavoratori del settore pubblico sono stati licenziati, non è stata fornita loro una ragione al di là della generica giustificazione dei “legami con organizzazioni terroristiche”.
Non sapendo quali fossero gli addebiti specifici nei loro confronti o le prove usate contro di loro, nel fare ricorso devono immaginare quali possano essere state le ragioni della fine del loro contratto di lavoro. In una situazione del genere, rigettare le accuse e avere accesso a un’effettiva procedura d’appello è difficile.
“I motivi del licenziamento non sono stati resi noti e non ci è stata data la benché minima possibilità di ricorrere in modo efficace. Abbiamo presentato un appello senza sapere esattamente contro cosa ci stavamo appellando”, ha riferito ad Amnesty International la moglie di un funzionario pubblico licenziato.
Alcune decisioni negative della Commissione sono risultate così prive di informazioni sufficienti sulle prove secondo le quali la persona licenziata aveva legami con gruppi fuorilegge da rendere difficile presentare un ulteriore appello a un tribunale amministrativo.
I lavoratori del settore pubblico che sono stati abbastanza fortunati da essere reintegrati sono spesso assegnati a mansioni peggiori di quelle che avevano prima del loro ingiusto licenziamento.
“Il nostro diritto a portare avanti in tribunale la richiesta di risarcimento è stato smantellato. Nel periodo in cui non lavoravo sono andato incontro a grandi difficoltà. Mia moglie è ancora in terapia a causa del trauma psicologico che ha sofferto”, ha raccontato ad Amnesty International un funzionario pubblico reintegrato nel suo posto di lavoro.
Nonostante le evidenti violazioni del diritto internazionale, il governo insiste a portare avanti questa sua strategia profondamente dannosa. Terminato lo stato d’emergenza nel luglio 2018, è stata immediatamente approvata una nuova legge che consente per i successivi tre anni licenziamenti sommari di lavoratori del settore pubblico considerati avere “legami” con organizzazioni terroristiche o con altri gruppi ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale.
“In Turchia, il sistema giudiziario è sottomesso ai politici: cambia a seconda del clima politico”, ha dichiarato un docente universitario, licenziato dopo aver firmato una petizione.
“Oltre due anni dopo il primo licenziamento, decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico vivono in un limbo nel quale non è previsto un rimedio efficace. Piuttosto che fornire un meccanismo contro l’ingiustizia, la Commissione non fa altro che versare sale sulle loro ferite”, ha commentato Gardner.
“Nei casi in cui vi sia il ragionevole sospetto di sbagli, cattiva condotta o comportamenti criminali, i lavoratori dovrebbero essere sottoposti a licenziamento al termine di una corretta procedura disciplinare. Le autorità dovrebbero reintegrare i lavoratori licenziati tramite decreto e ricompensarli per i danni subiti, tra cui il mancato versamento dello stipendio e i costi devastanti provocati sul piano psicologico dai licenziamenti”, ha concluso Gardner.
Ulteriori informazioni
La Turchia è stato parte della Convenzione 158 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che protegge i lavoratori dai licenziamenti arbitrari senza giusto procedimento. Tra le protezioni previste dalla Convenzione, è vietato terminare il rapporto di lavoro per ragioni diverse da quelle legittime collegate al rendimento del lavoratore e alla condotta tenuta nello svolgimento del suo ruolo, così come il lavoratore dovrebbe avere la possibilità di difendersi dalle accuse mosse nei suoi confronti prima che il licenziamento abbia luogo.
Le procedure seguite in Turchia nei licenziamenti e soprattutto la mancanza di un’equa ed efficace procedura d’appello minacciano il diritto a un processo equo in una procedura civile, garantito dall’articolo 6.1 della Convenzione europea sui diritti umani e dagli articoli 14 e 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Il fatto che la Turchia non metta a disposizione procedure attraverso le quali coloro che hanno subito violazioni dei diritti umani possano ottenere un rimedio costituisce inoltre una violazione degli obblighi a prevedere il diritto a un rimedio disposti dall’articolo 2.3 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’articolo 13 della Convenzione europea sui diritti umani.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 25 ottobre 2018
Il rapporto “Purga senza ritorno? Nessun rimedio per i lavoratori licenziati nel settore pubblico in Turchia” è online dal 25 ottobre.
Per interviste:
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