Ahmadreza Djalali ricercatore esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara è stato condannato a morte da un tribunale iraniano con l’accusa di “spionaggio”. La Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte in via definitiva il 9 dicembre.
Djalali è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz.
Si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta.
Lo scorso dicembre, le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava”di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi.
Per protesta, Djalali aveva iniziato uno sciopero della fame il 24 febbraio. Tuttavia, a causa dell’ulteriore peggioramento della sua salute che ne aveva causato il ricovero, Djalali ha deciso di interrompere lo sciopero della fame il 6 aprile.
Le autorità iraniane devono annullare immediatamente la condanna a morte di Ahmadreza Djalali e garantirgli il diritto di presentare un appello adeguato contro la sua condanna di fronte la massima corte. Negare questo rappresenterà un’ingiustizia irreparabile.
Ahmadreza Djalali, scienziato di origini iraniane ma residente in Sveziao, è stato condannato a morte e a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” (efsad-e fel-arz) dopo un processo gravemente iniquo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran.
Il verdetto della corte ha affermato che Ahmedreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.
Il giudice non ha fornito una copia del verdetto e ha invece convocato uno degli avvocati il 21 ottobre 2017 per leggere il verdetto in tribunale.
Ahmadreza Djalali, che ha insegnato all’università in Belgio, Italia e Svezia, era in viaggio d’affari in Iran quando è stato arrestato dai funzionari del Ministero dell’Intelligence nell’aprile del 2016.
La sua famiglia non ha avuto informazioni sul luogo di detenzione per dieci giorni dopo il suo arresto. È stato tenuto in una località sconosciuta per una settimana prima di essere trasferito alla sezione 209 della prigione Evin di Teheran, dove è stato detenuto per sette mesi, tre in isolamento. Successivamente è stato spostato nella sezione 7 del carcere di Evin.
Ha affermato che, mentre in isolamento, gli è stato negato l’accesso ad un avvocato ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto che è stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran, al fine di fargli “confessare” di essere una spia.
Ahmadreza Djalali nega le accuse contro di lui e sostiene che siano state fabbricate dalle autorità. In una lettera dell’agosto del 2017 scritta dall’interno della prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Ue. La mia risposta è stata “no” e ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia”.
Il 24 ottobre 2017, durante la sua conferenza stampa settimanale con i giornalisti, il procuratore generale di Teheran, Abbas Ja’fari Dolat Abadi, ha detto senza specificare il nome di Ahmadreza Djalali, che “l’imputato” aveva tenuto diversi incontri con l’agenzia di intelligence israeliana Mossad e che forniva loro informazioni sensibili su siti militari e nucleari iraniani in cambio di soldi e della residenza in Svezia.
I legali di Ahmadreza Djalali hanno appreso sabato 9 dicembre 2017 che la Prima sezione della Corte suprema aveva esaminato e confermato la condanna a morte in maniera sommaria e senza garantire loro di presentare istanza e fornire documenti di difesa, ha aggiunto l’associazione.
Ahmadreza Djalali è un medico di 45 anni residente in Svezia.
Docente e ricercatore in medicina dei disastri e assistenza umanitaria, ha insegnato nelle università di Belgio, Italia e Svezia.
Lavora nel campo della Medicina dei disastri dal 1999 e ha scritto decine di articoli accademici.
Ha lasciato l’Iran nel 2009 per un dottorato di ricerca presso il Karolinska Institute in Svezia, poi presso l’Università degli studi del Piemonte Orientale e la Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio.
Head of the Judiciary
Ayatollah Sadegh Larijani
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Number 4, 2 Aziz Street Intersection
Tehran
Iran
Eccellenza,
Le scrivo come sostenitore di Amnesty International, l’organizzazione non governativa che dal 1961 lavora in difesa dei diritti umani, dovunque siano violati.
La invito ad annullare la condanna e la sentenza di Ahmadreza Djalali, a liberarlo immediatamente e incondizionatamente essendo un prigioniero di coscienza. Djalali è detenuto soltanto come rappresaglia per il suo rifiuto di utilizzare i suoi legami scolastici e lavorativi nelle istituzioni accademiche europee e in altre istituzioni per spiare per l’Iran.
La esorto a garantire che abbia regolare accesso all’avvocato di sua scelta e ai familiari, compresi quelli residenti all’estero, nonché al personale del consolato di Svezia in Iran.
Le ricordo che le prove ottenute sotto costrizioni, torture o conseguenze di “confessioni” forzate non possono essere utilizzate come prove in tribunale e devono essere oggetto di una indagine indipendente e efficace.
Sessantanove anni dopo, avere il coraggio di difendere i 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani può costare la vita oppure la propria libertà personale.
Sessantanove anni dopo, avere il coraggio di difendere i 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani può costare la vita oppure la propria libertà personale.