“Saydnaya è la fine della vita – la fine dell’umanità.” – “Abu Muhammed”, ex guardia di Saydnaya
Gli omicidi, le torture, le sparizioni forzate e i massacri – che avvengono a Saydnaya dal 2011- sono perpetrati dalle autorità siriane come parte di un attacco sistematico contro la popolazione civile.
Le violazioni registrate a Saydnaya costituiscono crimini contro l’umanità e devono essere perseguiti.
Il governo siriano deve lasciar entrare osservatori indipendenti per indagare nei brutali centri di detenzione della Siria.
Firma ora l’appello e chiedi alla Russia e agli Stati Uniti di usare la loro influenza globale per assicurare che osservatori indipendenti siano autorizzati ad avviare indagini sulle condizioni nelle carceri della tortura in Siria.
vi scrivo per portare alla vostra attenzione il rapporto di Amnesty International che documenta le uccisioni di massa attraverso esecuzioni extragiudiziali nella prigione militare di Saydnaya (“Saydnaya”) e lo sterminio tramite tortura e trattamenti disumani nelle strutture di detenzione gestite dal governo in tutta la Siria.
Fin dal 2011, migliaia di persone sono state impiccate in massa in maniera extragiudiziale, di notte e nella massima segretezza. Molti altri detenuti a Saydnaya sono stati uccisi dopo essere stati ripetutamente torturati e sistematicamente privati di cibo, acqua, medicine e assistenza medica.
L’uccisione, la tortura, le sparizioni forzate e lo sterminio effettuati a Saydnaya fin dal 2011 sono stati perpetrati come parte di un ampio e sistematico attacco contro la popolazione civile, effettuato dalla polizia di stato. Ciò rappresenta un crimine contro l’umanità.
Vi chiedo di usare la vostra influenza per assicurare immediatamente che a osservatori indipendenti sia permesso di entrare ed effettuare indagini sulle condizioni all’interno di tutte le strutture di detenzione gestite dalle autorità siriane.
Vi sollecito anche a fare qualsiasi cosa in vostro potere per assicurare che le autorità siriane forniscano informazioni sulle sorti, lo status legale e la posizione di tutti gli individui in loro custodia.
Cordiali saluti
Per la prima volta Amnesty International ha ricostruito, in collaborazione con un team di specialisti di Architettura forense e grazie alle testimonianze raccolte da 65 sopravvissuti, un tour virtuale nel carcere militare di Saydnayaalla periferia di Damasco.
Da questi racconti emergono le agghiaccianti e inumane condizioni in cui vivono i detenuti, la maggior parte dei quali racconta di aver assistito alla morte di compagni di prigionia e alcuni di essere stati tenuti in celle insieme a cadaveri.
La tortura a Saydnaya pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri. Secondo i sopravvissuti, a Saydnaya picchiare a morte i detenuti è la norma. Inizialmente, i prigionieri di Saydnaya vengono tenuti per alcune settimane in celle sotterranee, dove d’inverno si gela, senza nulla per coprirsi. In seguito vengono portati nelle sezioni ai livelli superiori. Per non morire di fame, si nutrono con bucce d’arancia e noccioli di olive. Non possono parlare né rivolgere lo sguardo alle guardie, che regolarmente li scherniscono e li umiliano solo per il gusto di farlo. Molti detenuti hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale a causa del sovraffollamento e della mancanza di luce solare.
Febbraio 2017
La vita nella prigione di Saydnaya: il mattatoio di esseri umani
La prigione militare di Saydnaya è un mattatoio di essere umani. Dal 2011 migliaia di persone sono state uccise in esecuzioni extragiudiziali mediante impiccagioni di massa, portate avanti di notte e in assoluto segreto. Molti altri detenuti a Saydnaya sono morti in seguito alle torture reiterate e al sistematico diniego di cibo, acqua, medicinali e cure mediche.
La ricerca pubblicata nel febbraio 2017 ha rivelato che circa 13.000 persone sono state uccise a Saydnaya fra il settembre del 2011 e il dicembre del 2015, in spaventose impiccagioni di massa. Non siamo in possesso di prove di esecuzioni successive al dicembre del 2015, ma i trasferimenti a Saydnaya sono continuati, i “processi” alla corte marziale della prigione di al-Qaboun non si sono interrotti, e non ci sono motivi per credere che le esecuzioni siano state sospese. Per questa ragione, è probabile che dal dicembre del 2015 siano state uccise altre migliaia di persone.
Abbiamo intervistato 31 uomini che sono stati imprigionati a Saydnaya, quattro funzionari o secondini che avevano lavorato nella struttura, tre ex giudici siriani, tre dottori che avevano lavorato all’ospedale militare di Tishreen, quattro avvocati siriani, 17 esperti siriani e internazionali sulla detenzione in Siria, e 22 parenti di prigionieri che erano, o sono ancora, rinchiusi a Saydnaya.
I nomi sono stati modificati per proteggerne l’identità.
I “processi” della corte marziale della prigione
I detenuti uccisi a Saydnaya prima venivano sottoposti a un “processo” di fronte una corte marziale della prigione.
Un ex giudice della corte ne ha descritto le modalità:
“[La corte marziale] non era obbligata in alcun modo a seguire le procedure penali siriane. È al di fuori delle regole… I detenuti venivano condotti di fronte alla corte per uno o due minuti. Il giudice chiedeva al detenuto di fornire le generalità e di dichiarare se avesse commesso un reato. A prescindere dalla risposta, emetteva la condanna. Quella corte non aveva niente a che fare con la legge. Non era una corte”.
Secondo un ex ufficiale di Saydnaya:
“Chi confessava qualcosa di grave veniva mandato di fronte alla corte… Tutte le confessioni, senza eccezioni, erano estorte sotto tortura. Ovviamente, le persone venivano torturate per far confessare loro un crimine peggiore”.
“Ziyad”, uno specialista IT di Homs, “processato” dalla corte marziale della prigione, ha dichiarato:
“Certo che [il processo] non era equo, non lo era affatto. Nulla che abbia minimamente a che fare con la giustizia e la trasparenza. Eri bendato e ammanettato, non sapevi chi era il giudice, non sapevi cosa avevi firmato. È evidente che questa non è giustizia”.
“Nader”, un imprenditore di Damasco, conferma:
“Un giudice e un secondino della polizia militare mi hanno ascoltato per un minuto… ero con altri quarantacinque detenuti, e in un’ora avevano finito tutti i casi. Non eri informato delle accuse. Non avevi il diritto a un avvocato, o a parlare al telefono. Non avevi alcun diritto”.
La “raccolta”
I detenuti che sono condannati a morte sono prelevati dalle celle nel pomeriggio, e informati che saranno trasferiti a una prigione civile. In realtà, vengono condotti in un sotterraneo, dove vengono tenuti fino a notte fonda, e picchiati.
Un secondino ha così descritto questa raccolta:
“Andavamo a prendere i prigionieri, e l’assistente del funzionario, che aveva una lista con i nomi delle persone, veniva con noi. Allora aprivamo la porta della cella. Automaticamente, i detenuti si inginocchiavano faccia al muro, coprendosi gli occhi. Chiamavamo il nome di un detenuto, e lui si tirava la maglietta sul viso. Li mettevamo in fila indiana, e li facevamo spostare così, portandoli nella stanza di sotto. Non avevano il permesso di sedersi, così restavano in piedi. A quel punto cominciavamo a urlare, e a picchiarli. Sapevamo che sarebbero morti comunque, perciò facevamo quello che volevamo”.
I prigionieri hanno ascoltato di nascosto i pestaggi delle persone in attesa di essere uccise.
“Nader” ha raccontato:
“C’era un grande rumore. Dalle 22.00 alle 24.00, o dalle 23.00 all’1.00, si sentivano urla e grida provenire dal piano di sotto. È un dettaglio importante. Se non urli, a Saydnaya ti picchiano meno. Ma queste persone gridavano come impazzite. Non era un suono normale, era fuori dall’ordinario. Urlavano come se le stessero scorticando vive”.
Impiccagioni di massa
I detenuti non si rendevano conto di cosa stava per accadere fino all’ultimo momento. All’ingresso della stanza dell’impiccagione, ancora bendati, ordinavano ai detenuti di esprimere i loro ultimi desideri e di imprimere un’impronta su un foglio che ne documentava la morte.
Secondo un ex funzionario della prigione:
“Dopo aver lasciato l’impronta sul foglio, alcuni di loro non dicevano nulla, altri svenivano. Ma non sapevano quando sarebbe accaduto, o come – se per impiccagione, fucilazione, o in qualche altro modo”.
Dopo, i detenuti erano condotti sui patiboli, ancora bendati. L’ex funzionario:
“Li mettevano in fila pronti per l’esecuzione. Aspettavano che tutti gli spazi fossero pieni, e solo a quel punto gli passavano il cappio intorno al collo e li spingevano o li lasciavano cadere immediatamente, così i condannati non capivano fino all’ultimo momento cosa stava accadendo”.
Un ex giudice ha aggiunto:
“Li lasciavano appesi per 10, 15 minuti. Alcuni non morivano perché troppo leggeri, soprattutto i più giovani pesavano troppo poco per morire. Allora gli assistenti li tiravano giù fino a quando non gli si spezzava il collo”.
Detenuti che si trovavano nel locale sopra a quello adibito alle impiccagioni hanno dichiarato che a volte si sentivano i rumori che provenivano da sotto:
“Hamid”, un ex militare arrestato nel 2011, ha dichiarato:
“Se appoggiavi un orecchio al pavimento, potevi sentire un suono simile a un gorgoglio. Durava circa 10 minuti. Dormivamo sopra alle persone che soffocavano a morte. Alla fine, era diventata una cosa normale”.
Politiche di sterminio
Secondo i prigionieri usciti da Saydnaya, nelle loro celle o nel loro braccio si registravano morti ogni settimana, a volte ogni giorno, morti dovute alle malattie, alla sete, alla malnutrizione e alle ferite riportate per le percosse e le torture.
L’ex detenuto “Kareem” ha spiegato cosa accadeva ai corpi:
“Nella cella, nel periodo fra febbraio e giugno 2014, è morta anche una persona al giorno. Allora mettevamo il corpo in una coperta vicino alla porta. Il secondino arrivava la mattina. Lo Shawish (il prigioniero incaricato nella cella) diceva “Pronti, signore”. Il secondino diceva: avete una carcassa? Allora lo shawish diceva, ancora, “Pronti, signore”. A quel punto portavano via il corpo”.
“Nader” aggiunge:
“Ogni giorno c’erano due o tre morti nel nostro braccio. Ricordo che il secondino passava a chiedere quanti ne avevamo. “Cella numero 1, quanti ne avete?”, “Cella numero 2, quanti?”. Una volta per tre giorni [nel nostro braccio] non ci sono stati morti; allora i secondini entrarono, una cella dopo l’altra, e ci picchiarono in testa, sul torace, sul collo. Quel giorno nel nostro braccio ci sono stati 13 morti”.
La maggior parte dei sopravvissuti ha raccontato ai nostri ricercatori che le torture iniziano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione.
Qui, all’arrivo, i detenuti sono sottoposti al cosiddetto haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici).
“Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” – ha raccontato Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama.
Alla “festa di benvenuto”, spesso seguono i “controlli di sicurezza” durante i quali le donne vengono sottoposte ad aggressioni sessuali e a stupri da parte di personale di sesso maschile.
All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subiscono costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, oppure semplicemente come punizione.
I metodi di tortura descritti dagli ex detenuti comprendono il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette.
Ali, detenuto presso la sede dei servizi di sicurezza militari di Homs, ha raccontato di essere stato sottoposto alla tortura dello shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente per parecchie ore).
La combinazione tra sovraffollamento, mancanza di cibo e di cure mediche e insufficienza di servizi igienico-sanitari costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante, vietato dal diritto internazionale.
Le celle, hanno raccontato gli ex detenuti, erano così sovraffollate da rendere necessario fare i turni per dormire o, in alternativa, dormire rannicchiati.
“Era come stare in una stanza di morti. Cercavano di farci fare quella fine” – ha raccontato un altro ex detenuto, Jalal.
“Ziad” (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità) ha denunciato che un giorno, nella sezione 235 dei servizi di sicurezza militari di Damasco, l’impianto di aerazione si è rotto e sette detenuti sono morti soffocati.
“Ci prendevano a calci per vedere chi era morto e chi no. Ad alcuni di noi hanno ordinato di alzarci in piedi. In quel momento mi sono reso conto che c’erano sette morti, che avevo dormito accanto a sette cadaveri. Poi nel corridoio ho visto gli altri, circa 25 cadaveri”.
Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011.
In generale, i detenuti non hanno contatti con medici, familiari o avvocati: una condizione che in molti casi equivale a una sparizione forzata.
Secondo un portavoce del governo della Turchia, gli Usa hanno dato via libera a un’offensiva contro le forze curde allo scopo di stabilire una “zona di sicurezza” ampia 32 chilometri lungo il confine, allo scopo di trasferirvi dalla Turchia milioni di rifugiati siriani.
Chiediamo a Russia, Turchia e Iran, che hanno creato una zona demilitarizzata che protegge solamente una parte della popolazione della provincia mentre devono assicurare la protezione dell’intera zona, di prevenire un’altra catastrofe a Idlib.
Il nuovo segretario generale di Amnesty International Kumi Naidoo, al suo ritorno da una visita sul campo a Raqqa, in Siria, ha descritto la terribile distruzione e la totale devastazione umanitaria a un anno dalla fine dell’offensiva.
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