Le minoranze degli uiguri, dei kazaki e di altri gruppi etnici prevalentemente musulmani che vivono in Cina sono il bersaglio di una campagna di internamento di massa.
Si stima che oltre un milione di persone siano detenute arbitrariamente in campi di “de-estremizzazione” nella regione autonoma dello Xinjiang (Xuar).
Il ricorso a questi campi si è intensificato dopo che, nel marzo 2017, sono stati adottati “Regolamenti sulla de-estremizzazione” altamente restrittivi e discriminatori.
Esternazioni pubbliche o private di affiliazione religiosa e culturale, compresa la crescita di una barba “anormale”, l’uso di un velo o anche solo un foulard, una semplice preghiera, il digiuno o il rifiuto dell’alcol, possedere libri o articoli sull’Islam o sulla cultura uigura possono essere considerati “estremisti” in base a questo nuovo regolamento.
I viaggi all’estero per lavoro o istruzione, in particolare verso paesi a maggioranza musulmana, o anche solo avere contatti con persone al di fuori della Cina sono i principali motivi di sospetto.
Maschio, femmina; giovane, vecchio; di città o di campagna, tutti sono a rischio di detenzione.
Chiedi alla Cina di chiudere ora i suoi campi segreti di “rieducazione” per le minoranze etniche.
“Mi hanno tenuto in piedi fisso nella stessa posizione per 12 ore. Alla fine avevo perso completamente il controllo delle mie volontà ed eseguivo tutti i loro ordini”.
Kairat Samarkan è stato detenuto in un “campo di rieducazione” in Cina nell’ottobre 2017. Al momento del suo arresto è stato incappucciato e costretto a indossare catene alle braccia e alle gambe e a restare fermo per ben 12 ore.
Kairat è stato condotto in un campo dove c’erano circa 6.000 persone detenute, costrette a cantare canzoni politiche e a studiare discorsi del Partito comunista cinese. Non potevano parlare tra loro ed erano costretti a cantare “Lunga vita a Xi Jinping” prima dei pasti.
Il trattamento subito – ci ha raccontato – lo ha spinto a tentare il suicidio poco prima del suo rilascio.
La storia di Kairat è emblematica e racconta cosa accade in Cina alle minoranze di uiguri, kazaki e altri gruppi etnici prevalentemente musulmani.
Le autorità cinesi definiscono questi campi come centri di “trasformazione attraverso l’educazione“, ma la maggior parte delle persone li chiama semplicemente “campi di rieducazione“.
Le persone sono trattenute e “rieducate” per prevenire “l’estremismo” religioso e le “attività terroristiche”, e per assicurare “l’unità etnica” e la sicurezza nazionale.
La detenzione può durare mesi o anni e dipende da valutazioni soggettive sullo stato di trasformazione di chi ci è entrato.
Chi prova a resistere o non mostra progressi affronta punizioni che vanno dall’abuso verbale alla privazione del cibo, all’isolamento, alle percosse e all’uso di restrizioni e posizioni di stress.
Gli onnipresenti controlli di sicurezza che ora fanno parte della vita quotidiana di tutti nello Xuar offrono ampie opportunità per cercare contenuti sospetti sui telefoni cellulari o controllare le identità delle persone utilizzando software di riconoscimento facciale.
Le persone potrebbero essere sospettate attraverso il monitoraggio di routine dei messaggi inviati su app di social media come WeChat, che non utilizza la crittografia end-to-end. Anche l’utilizzo di app di messaggistica alternative con crittografia, come WhatsApp, può essere causa di detenzione.
Syrlas Kalimkhan ha raccontato ai nostri ricercatori di aver installato WhatsApp sul cellulare di suo padre e lo ha testato scrivendo “Ciao papà”. Poco più tardi, la polizia ha chiesto a suo padre, Kalimkhan Aitkali, 53 anni, un contadino, perché avesse WhatsApp sul telefono. In seguito è stato inviato in un “campo di rieducazione”.
“Mio padre è un cittadino normale. Eravamo una famiglia felice prima che fosse detenuto. Abbiamo riso insieme. Non possiamo più ridere e non possiamo dormire la notte. Viviamo nella paura ogni giorno. Mia madre soffre tantissimo. Non sappiamo dove sia. Non sappiamo nemmeno se è ancora vivo. Voglio vedere di nuovo mio padre”.
Bota Kussaiyn, una studentessa di etnia kazaka che studia presso l’Università statale di Mosca, ha parlato l’ultima volta con suo padre, Kussaiyn Sagymbai, su WeChat nel novembre 2017.
Originariamente dallo Xuar, la loro famiglia si era ristabilita in Kazakistan nel 2013. Il padre di Bota è tornato in Cina alla fine del 2017 per incontrare un medico, ma le autorità hanno confiscato il suo passaporto dopo essere arrivato nello Xuar. In seguito Bota ha scoperto dai familiari che suo padre era stato mandato in un “campo di rieducazione”.
I suoi parenti nello Xuar, spaventati, hanno immediatamente interrotto i contatti con lei.
Per chi vive all’estero è inevitabile sentirsi responsabili o “colpevoli” per la detenzione dei propri familiari. Sembra ormai chiaro che proprio queste relazioni oltreoceano siano, in molti casi, la causa del sorgere di sospetti sui familiari residenti nello Xuar.
Le autorità accusano le persone di avere legami con gruppi esteri che il governo cinese sostiene promuovano opinioni religiose “estremiste” o “attività terroristiche”. Il vero scopo, tuttavia, sembra essere la realizzazione di un blackout informativo sull’attuale giro di vite contro le minoranze etniche nello Xuar.
Per evitare di suscitare tale sospetto, gli uiguri, i kazaki e altri gruppi minoritari dello Xuar hanno tagliato ogni legame con amici e familiari che vivono fuori dalla Cina.
Invitano i conoscenti a non chiamare ed ad eliminare contatti esterni dalle applicazioni dei social media. Incapaci di ottenere informazioni attendibili da casa, molte persone che vivono all’estero temono inevitabilmente il peggio.
Egregio Presidente Xi,
mi rivolgo a Lei in quanto sostenitore di Amnesty International, l’organizzazione non governativa che dal 1961 lavora in difesa dei diritti umani, ovunque siano violati.
Scrivo per esprimere le mie preoccupazioni in merito alle segnalazioni di violazioni dei diritti umani nella regione autonoma uigura dello Xinjiang (XUAR) e chiedo al suo governo di adottare misure urgenti ed efficaci per proteggere gli uiguri, i kazakhi e altri popoli prevalentemente musulmani nello Xuar dall’essere arbitrariamente detenuti in strutture di “trasformazione attraverso l’educazione” in nome della “de-estremizzazione”. Le autorità giustificano le misure estreme come mezzi necessarie per sconfiggere l’antiterrorismo e per garantire la sicurezza nazionale. Tuttavia, le misure in adempimento della responsabilità di un paese di proteggere i suoi cittadini da attacchi esterni devono essere necessarie e proporzionate e il più possibile ristrette e mirate per affrontare una specifica minaccia.
Le scrivo per esortarla a fornire risposte credibili su ciò che sta accadendo nello Xuar. In conformità con gli obblighi della Cina ai sensi del diritto internazionale, si dovrebbe porre fine a ogni detenzione arbitraria e rilasciare immediatamente tutte le persone che sono detenute in “de-estremizzazione”, “trasformazione attraverso l’educazione” o altre strutture nello Xuar a meno che non siano state accusate di un reato riconosciuto a livello internazionale.
La ringrazio per l’attenzione.