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Dopo le rivelazioni del New York Times e quelle di 17 mezzi d’informazione partner del Consorzio internazionale del giornalismo investigativo sul sistema di internamento di massa in funzione nella Repubblica autonoma uigura del Xinjiang, Amnesty International ha sollecitato il governo cinese a smettere di negare l’esistenza di un piano di sistematica persecuzione etnica e religiosa.
Quelli in cui sono internate centinaia di migliaia di persone – uiguri, kazaki e appartenenti ad altre minoranze per lo più musulmane del Xinjiang – non sono “centri per la formazione professionale“, come pretende la narrativa ufficiale cinese, ma veri e propri campi d’internamento allestiti per l’indottrinamento politico, il lavaggio del cervello e l’assimilazione culturale forzata.
Come già denunciato da Amnesty International in un rapporto del 2018, il sistema è entrato a pieno regime nel marzo 2017, quando nel Xinjiang è stato adottato il “Regolamento sulla de-radicalizzazione“.
In nome della sicurezza nazionale e del contrasto al terrorismo, sono state giudicate “estremiste” e internate persone la cui barba era “abnormemente lunga”, si coprivano il capo col velo, digiunavano, pregavano regolarmente, non bevevano alcoolici o possedevano libri sull’Islam o sulla cultura uigura.