Aggiornato il 22 luglio 2020 – Diciannove anni dopo il G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell’occasione sono sfuggiti alla giustizia, restando di fatto impuniti.
In parte, il motivo è legato all’impossibilità di identificare gli esecutori materiali da parte dell’autorità giudiziaria.
Negli anni successivi, altri casi di persone che hanno subito un uso sproporzionato della forza durante manifestazioni o assemblee pubbliche, chiamano in causa la responsabilità di appartenenti alle forze di polizia.
Per porre fine alle violazioni dei diritti umani che vedono un coinvolgimento delle forze di polizia e riaffermare il ruolo centrale di queste nella protezione dei diritti umani, è essenziale che le lacune esistenti vengano al più presto colmate.
Tra queste ci sono i codici o numeri identificativi individuali, elemento importante di accountability; il fatto che i singoli agenti e funzionari siano identificabili è un messaggio importante di trasparenza che mostrerebbe la volontà delle forze di polizia di rispondere delle proprie azioni e allo stesso tempo accrescerebbe la fiducia dei cittadini.
La richiesta è quella di esporre un codice identificativo alfanumerico sulle divise e sui caschi per gli agenti e i funzionari di polizia (senza distinzione di ordine e grado) impegnati in operazioni di ordine pubblico.
Ciò avrebbe un duplice effetto di trasparenza: verso i cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti delle forze dell’ordine che svolgono correttamente il loro servizio.
La testimonianza di Paolo Scaroni
Paolo Scaroni, un tifoso del Brescia, il 24 settembre del 2005 è stato vittima di una violenta aggressione delle forze di polizia che lo ha tenuto in coma per i due mesi successivi e lo ha reso invalido al 100% per tutta la vita.
Quel giorno Paolo, ultrà del Brescia che oggi ha 41 anni, era andato ad assistere a una partita di calcio, il ritorno a casa fu per lui fatale.
Dopo la partita, i bresciani vennero scortati in stazione, dove si scatenò l’inferno: tre cariche della celere, violentissime.
Paolo ne uscì con la testa fracassata: salvato dagli amici, si rialzò, vomitò e svenne. Alle 19,45 entrò in coma.
In 13 anni Paolo non è riuscito ad avere giustizia: i nomi dei suoi aggressori non sono mai emersi, i colpevoli che hanno distrutto la sua vita e i suoi ricordi non sono stati riconosciuti perché – appunto – non erano identificabili da nessun elemento e quella sera avevano il volto coperto.
Il 25 giugno, i giudici della Corte d’appello di Venezia, hanno confermato l’assoluzione per insufficienza di prove degli agenti del reparto Mobile della Questura di Bologna accusati di aver massacrato di botte il tifoso del Brescia
Quanto accaduto a Paolo conferma, ancora una volta, come una maggiore trasparenza non possa che facilitare l’accertamento delle responsabilità e prevenire episodi gravissimi come questo, oltre che accrescere la fiducia complessiva nell’operato degli agenti.
Sosteniamo con forza l’introduzione di ogni strumento, a partire dai codici identificativi fino alle bodycam, per raggiungere tali obiettivi.
Non è la prima volta che Amnesty International Italia chiede l’utilizzo di codici identificativi ben visibili sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.
Già nel 2011, in occasione del 10° anniversario del G8 di Genova, avevamo promosso la campagna “Operazione trasparenza. Diritti umani e polizia in Italia” in cui si chiedeva al Governo di esprimere pubblicamente una condanna e delle scuse verso le vittime per le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di polizia a Genova nel 2001 e di garantire indagini rapide e accurate e processi equi nei casi in cui c’era stata violazione dei diritti umani da parte delle forze di polizia.
Fra le richieste più specifiche formulate a partire dai fatti di Genova, chiedemmo al capo della polizia di prevedere misure di identificazione per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico. Da allora sono passati sette anni e in Europa sono già 15 i paesi che hanno adottato i codici identificativi, a cui a breve si aggiungerà il Lussemburgo.
Oltre a dare seguito alla richiesta contenuta nella Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 che, tra le altre cose esorta gli stati membri a “garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”, dopo l’elezione dell’Italia al Consiglio Onu dei diritti umani per il triennio 2019-2021, il nostro paese ha il compito, ancora più gravoso, di dimostrare, a livello internazionale, il suo impegno nella prevenzione dalle violazioni dei diritti umani.
Questo impegno pretende anche coerenza interna e accountability e cioè dall’essere trasparente e rendere conto delle proprie azioni.
Uno degli impegni che il nostro paese deve prendere, infatti, così come raccomandato dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di assemblea pacifica (A/HRC/31/66, 4 febbraio 2016) è di garantire l’accountability rispetto durante le assemblee e le riunioni pacifiche.
Nella maggior parte degli stati membri dell’Unione europea, identificare gli agenti di polizia che si occupano di ordine pubblico è già una regola diffusa.
Su 28 stati membri, infatti, sono già 21 – Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna – quelli che hanno introdotto misure di identificazione per gli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.
Inoltre, la Germania le prevede in nove regioni su 16 mentre in Ungheria e in Svezia, pur non essendo previsto un obbligo, gli agenti di polizia espongono nome, carta d’identità e grado sull’uniforme e un codice quando indossano equipaggiamento speciale.
Restano quindi fuori Austria, Cipro, Italia, Lussemburgo e Olanda.
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Nella risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea, il paragrafo 192 tra le altre cose “esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”.
Anche il Relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto alla libertà di assemblea pacifica e di associazione e quello sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie raccomandano, in merito alla corretta gestione delle manifestazioni, che “i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero“.
Ministra Luciana Lamorgese
Ministra dell’Interno
Prefetto Franco Gabrielli
Capo della Polizia
Egregio Ministro,
Egregio Capo della Polizia,
le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti. Ricevono le denunce, contribuiscono alle indagini e garantiscono il corretto svolgimento delle manifestazioni pubbliche, tutelando partecipanti e non da violenze e minacce. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle eventuali responsabilità e una complessiva trasparenza, in linea con gli standard internazionali in materia.
Da tempo si discute della responsabilità degli agenti in caso di uso sproporzionato della forza, e dell’opportunità di introdurre un codice identificativo personale sulle divise. Già il Parlamento Europeo, nel 2012, esortava gli stati membri “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. Da allora, diversi Paesi hanno dato seguito a questa richiesta, ma non l’Italia.
Diciassette anni dopo il G8 di Genova, benché le violenze gravi e sistematiche compiute siano state accertate in sede di giudizio, molti fra gli agenti coinvolti in quegli eventi sono rimasti impuniti, in parte per effetto della prescrizione e in parte proprio perché non fu possibile risalire all’identità di tutti gli agenti presenti.
Crediamo sia ormai urgente la previsione di misure che consentano l’identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico. Episodi di uso ingiustificato della forza, come accaduto in passato, possono innescare pericolose generalizzazioni, specie se si riscontrano difficoltà rispetto all’accertamento delle responsabilità e delle relative sanzioni. Crediamo fortemente che l’introduzione dei codici identificativi sarebbe non solo uno strumento di garanzia per il cittadino, ma anche e soprattutto di maggiore tutela per tutti gli agenti che svolgono il proprio lavoro in maniera corretta.
Per questo chiediamo di varare una normativa in linea con gli standard internazionali che preveda l’utilizzo di codici alfanumerici identificativi ben visibili sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.
Desta sconcerto il fatto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi
Quello di Torino è stato l’ultimo di una serie di processi relativi alle drammatiche conseguenze di Tso viziati da illegalità procedurali e, peggio, da azioni violente, ingiustificate e ingiustificabili
Nessuno dei quattro condannati ha scontato la propria pena. Inoltre, nonostante la condanna in tutti i gradi di giudizio, i quattro agenti sono rimasti in servizio senza essere espulsi dal corpo
Se verranno confermati in giudizio, i "reati impressionanti" siano adeguatamente puniti secondo quanto prevede il codice penale per il reato di tortura
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