Aggiornato il 11 settembre 2018 – Quasi un anno fa, le forze di sicurezza del Myanmar hanno attraversato centinaia di villaggi Rohingya uccidendo donne, uomini e bambini; stuprando donne e ragazze; trasferendo uomini e ragazzi nei luoghi di detenzione dove sono stati torturati. I soldati hanno bruciato case, negozi e moschee dei Rohingya e costretto oltre 700.000 persone a fuggire attraverso il confine con il Bangladesh. Questi sono crimini contro l’umanità.
Un rapporto diffuso il 27 agosto dalla Missione Onu di accertamento dei fatti ha aggiunto ulteriori prove a quelle, già schiaccianti, relative agli atroci crimini commessi dalle forze di sicurezza di Myanmar contro i rohingya e altre minoranze etniche nel nord del paese.
Abbiamo identificato 13 individui sospettati di avere un ruolo chiave in questi crimini, sia come autori diretti sia per responsabilità di comando in Myanmar. Le Nazioni Unite devono ora prepararsi in vista futuri procedimenti penali.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deve deferire urgentemente la situazione di Myanmar al Tribunale penale internazionale. Fino a quando non lo farà, è fondamentale che gli stati membri dell’Onu adottino meccanismi per raccogliere e conservare le prove in vista di futuri procedimenti giudiziari.
Non ci fermeremo fino a quando gli ufficiali dell’esercito del Myanmar con le mani di sangue non saranno assicurati alla giustizia. Senza prove, l’opportunità di attribuire le giuste responsabilità potrebbe essere persa.
Chiedi alle Nazioni Unite di creare un meccanismo necessario per raccogliere e conservare le prove.
Testimonianze, immagini e dati forniti dai satelliti, fotografie e filmati di Amnesty International, raccolte negli ultimi due anni, portano ad una unica conclusione: centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini rohingya sono vittime di un attacco sistematico e massiccio che costituisce un crimine contro l’umanità.
Il popolo rohingya ridotto alla fame
Le persone arrivate in Bangladesh hanno raccontato che è stata soprattutto la fame, frutto di una deliberata strategia dell’esercito di Myanmar, a spezzare la loro determinazione a rimanere nei villaggi. Il culmine è stato il divieto loro imposto di raggiungere i campi di riso nel momento della raccolta, tra novembre e dicembre. I soldati hanno anche preso parte, o lo hanno almeno facilitato, al furto del bestiame e all’incendio dei mercati locali, impedendo l’accesso agli altri centri di vendita.
A questo vanno aggiunte le forti restrizioni all’ingresso degli aiuti umanitari nel nord dello stato di Rakhine.
Rapimenti e stupri di bambine e donne rohingya
I ricercatori di Amnesty International hanno documentato tre casi di rapimento di bambine e giovani donne. All’inizio di gennaio i soldati hanno fatto irruzione in una casa del villaggio di Hpoe Khaung Chaung e hanno costretto il capofamiglia a consegnare Samida, una bambina di 15 anni che da allora non è stata più vista. Lo stesso è accaduto ad altre donne e bambine, vittime di sparizione forzata.
Ai posti di blocco le donne rohingya, soprattutto le più giovani, subiscono perquisizioni invadenti e a volte vera e propria violenza sessuale.
I nostri ricercatori hanno intervistato sette rohingya sopravvissute alla violenza sessuale perpetrata dalle forze di sicurezza di Myanmar. Cinque di loro, quattro donne e una 15enne, sono state stuprate in gruppo, insieme ad altre donne e ragazze, nei villaggi di Min Gyi e Kyun Paul.Come già documentato da Human Rights Watch e dal Guardian, la mattina del 30 agosto i soldati sono entrati a Min Gyi, hanno inseguito gli abitanti in fuga fino alla riva del fiume e poi hanno separato gli uomini e i ragazzi più grandi dalle donne e dai ragazzi più piccoli. Dopo aver aperto il fuoco uccidendo decine di persone – soprattutto, ma non solo, uomini e ragazzi più grandi – i soldati hanno diviso le donne in gruppi portandole nelle case più vicine. Poi le hanno stuprate e infine hanno dato fuoco a quelle e ad altre abitazioni.
S.K., 30 anni, ha assistito alle esecuzioni per poi essere costretta insieme ad altre donne e a ragazzi più piccoli a entrare in un canale, dove l’acqua arrivava fino alle ginocchia:
“Hanno portato le donne in case diverse. A noi cinque ci hanno preso quattro soldati. Ci hanno sottratto soldi e altri oggetti personali e ci hanno picchiato con un bastone di legno. Hanno picchiato anche i miei figli, che erano con me. Shafi aveva due anni, l’hanno ucciso con una bastonata. Così Mohamed Osman di 10 anni e Mohamed Saddiq di cinque. Hanno ucciso anche i figli di altre donne”.
“Poi ci hanno obbligate a toglierci i vestiti. Avevano quei bastoni pesanti. Ci hanno colpito prima sulla testa, poi con quei bastoni ci hanno penetrate. Alla fine ci hanno stuprate. Un soldato per ogni donna”. Dopo gli stupri i soldati hanno dato fuoco alle case, uccidendo molte donne rimaste all’interno.
Omicidi e massacri
Nelle ore e nei giorni successivi agli attacchi dell’Arsa del 25 agosto, le forze di sicurezza di Myanmar – a volte con la collaborazione di gruppi locali di vigilantes – hanno circondato i villaggi rohingya nella zona settentrionale dello stato di Rakhine, uccidendo o ferendo gravemente centinaia di abitanti in fuga. Persone anziane e con disabilità, impossibilitate a fuggire, sono state arse vive nelle loro abitazioni date alle fiamme dai soldati.
I sopravvissuti hanno raccontato di essersi nascosti sulle colline o nelle risaie fino a quando le forze di sicurezza non se ne sono andate e che l’esercito di Myanmar, appoggiato dalla polizia di frontiera e da vigilantes locali, ha circondato i loro villaggio aprendo il fuoco su chi cercava di fuggire e poi ha incendiato sistematicamente le abitazioni.
Fatima, 12 anni, era a casa con i genitori, otto fratelli e la nonna quando ha visto le fiamme levarsi da un’altra zona del villaggio. Appena messo piede fuori dalla loro casa, uomini in uniforme hanno aperto il fuoco. Il padre, la madre, una sorellina di 10 anni e un fratello maggiore sono stati uccisi e lei stessa è stata raggiunta da un proiettile poco sopra il ginocchio destro. È caduta in terra ma un vicino l’ha sollevata e l’ha presa in braccio.
Amnesty International ha trasmesso le fotografie della gamba ferita di Fatima a un esperto di medicinale legale, il quale ha stabilito la compatibilità con un proiettile “che ha raggiunto la coscia da dietro”. I medici incontrati in Bangladesh hanno dichiarato di aver curato molte ferite causate da proiettili sparati da dietro il che coincide con le testimonianze di coloro che hanno visto i militari sparare contro le persone in fuga.
Incendi deliberati e organizzati
Il 3 ottobre 2017 Unosat (l’Operazione satellitare delle Nazioni Unite) ha dichiarato di aver identificato un’area di 20,7 kmq di edifici distrutti da incendi nelle zone di Maungdaw e Buthidaung a partire dal 25 agosto: un dato persino probabilmente sottostimato a causa della densa copertura nuvolosa del periodo.
Amnesty International ha riesaminato i dati forniti dai sensori satellitari giungendo alla conclusione che dal 25 agosto sono stati appiccati almeno 156 vasti incendi: anche questo numero potrebbe essere inferiore alla realtà. Nei cinque anni precedenti, nello stesso periodo monsonico, non era stato rilevato alcun incendio, segno dell’intenzionalità dell’operato delle forze di sicurezza di Myanmar.
Le immagini satellitari riprese prima e dopo gli incendi corroborano le testimonianze raccolte da Amnesty International, ossia che le forze di sicurezza hanno dato alle fiamme solo abitazioni o zone abitate dai rohingya. A Inn Din e Min Gyi vi sono ampie parti di territorio con strutture incendiate fianco a fianco ad abitazioni rimaste intatte. L’esame delle caratteristiche delle zone risparmiate dalle fiamme, incrociato con i racconti dei testimoni sulla diversa composizione etnica di queste ultime, conferma che sono state incendiate solo le zone dei rohingya.
I recenti episodi di violenza nel nord del Rakhine si inseriscono in un contesto più ampio e di lunga data di discriminazione contro i Rohingya in Myanmar.
La loro condizione si era già deteriorata in modo significativo in seguito alle ondate di violenza in particolare tra buddisti e musulmani Rohingya, registrate nel Rakhine nel 2012 e che hanno causato decine di morti, sfollamenti e distruzione di proprietà.
Quasi cinque anni dopo, decine di migliaia di persone, soprattutto Rohingya, restano sfollate in squallidi campi, dove sono vivono letteralmente segregate.
Oltre un milione di Rohingya vive al di fuori dei campi per sfollati in Rakhine senza diritto alla libertà di movimento, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Queste persone non possono praticare la propria religione né hanno accesso a forme di sostentamento. L’attuazione di tali restrizioni ha portato ad arresti arbitrari, tortura e altri maltrattamenti, atti di estorsione e tangenti da parte delle forze di sicurezza dello Stato, spesso commessi in totale impunità.
Molti degli abusi che subiscono i Rohingya sono una conseguenza della mancanza di cittadinanza stabilita da una legge del 1982 del Myanmar che limita l’accesso a determinati gruppi in base alla loro appartenenza etnica.
Il rifiuto di riconoscere l’identità di questa comunità ha raggiunto tale livello che semplicemente l’uso della parola “Rohingya” è diventato politicamente controverso. Molte persone insistono a riferirsi a loro come “bengalesi” – un termine che implica che essi siano i migranti dal vicino Bangladesh.
Gruppi nazionalisti intransigenti, che promuovono atteggiamenti discriminatori nei confronti di Rohingya e altri musulmani, hanno acquisito sempre più potere e maggiore influenza negli ultimi anni.
Nel mese di marzo 2016, un nuovo governo quasi-civile guidato dalla Lega Nazionale per la democrazia(NLD) di Aung San Suu Kyi è salito al potere.
Tuttavia, l’esercito del Myanmar conserva notevoli poteri politici ed economici. In Parlamento l’esercito detiene il 25% dei seggi, oltre a conservare il controllo complessivo dei Ministeri della difesa, degli affari di frontiera e degli affari interni, che sovrintende la forza di polizia del Myanmar e il Dipartimento dell’amministrazione generale (GAD).
Tutti e tre i ministeri sono fondamentali per la protezione e la difesa dei diritti umani, ma sono implicati in molte delle violazioni subite dai Rohingya.
Da quando è salito al potere, il nuovo governo ha messo in guardia la comunità internazionale contro l’uso del termine “Rohingya”, chiedendo “spazio” per affrontare il problema.
Il 30 maggio 2016, il governo ha formato un nuovo Comitato centrale d’implementazione della pace, stabilità e sviluppo dello stato di Rakhine, presieduto da Aung San Suu Kyi.
Il 24 agosto 2016, Aung San Suu Kyi ha anche istituito una Commissione consultiva per affrontare la questione dello stato di Rakhine, che è presieduta dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan.
Tuttavia, dopo gli attacchi del 9 ottobre nello stato di Rakhine, l’ufficio di Aung San Suu Kyi ha istituito “l’ufficio informazioni del consigliere di stato”, che ha rilasciato smentite sulle violazioni dei diritti umani da parte forze di sicurezza. Aung San Suu Kyi sembra che cerchi di sminuire la gravità delle presunte violazioni dei diritti umani.