Etiopia, un anno di proteste represse nel sangue

10 Novembre 2016

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Il 12 novembre, sarà trascorso un anno dall’inizio di un’ondata di proteste represse nel sangue dalle forze di sicurezza dell’Etiopia: i morti, negli ultimi 12 mesi, sono stati almeno 800.

Le proteste iniziarono nella regione di Oromia, contro il progetto del nuovo piano regolatore della capitale Addis Abeba che intendeva estendere il controllo amministrativo della città su parte di Oromia.

Nel gennaio di quest’anno, il progetto è stato annullato. Le proteste sono però proseguite, questa volta con l’obiettivo di porre fine alla complessiva situazione di emarginazione degli oromo e di far uscire dal carcere i loro leader.

Le proteste si sono persino allargate alla regione di Ahmara, anch’essa vittima di emarginazione etnica, e sono state stroncate con le stesse modalità con cui erano state soppresse mesi prima quelle degli oromo.

Uno dei peggiori episodi si è verificato poco più di un mese fa: il 2 ottobre, 55 oromo hanno perso la vita travolte dalla folla in panico durante il festival religioso di Irrecha, che si stava svolgendo a Bishoftu, 45 chilometri a sud-est di Addis Abeba. Gli attivisti accusano le forze di sicurezza di aver provocato la strage, sparando e lanciando gas lacrimogeni sulla folla. Il governo ha sempre negato ogni responsabilità.

Una settimana dopo, è stato dichiarato lo stato d’emergenza. Da allora, non si sono registrate più significative proteste. Le voci critiche sono ridotte al silenzio, con arresti di massa, limitazioni alla libertà di stampa e chiusure periodiche di Internet.

A un anno di distanza dall’inizio delle proteste, la tensione in Etiopia rimane dunque alta. Amnesty International sollecita il governo a impegnarsi seriamente per un piano di riforme, abolire le leggi repressive (in particolare quella contro il terrorismo), scarcerare le migliaia di prigionieri politici e ripristinare la libertà d’espressione.