In Brasile il razzismo delle forze di polizia è un problema di sistema

4 Novembre 2025

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Il massacro del 28 ottobre nella favela Alemão y Penha di Río de Janeiro – almeno 121 morti, molti dei quali mediante vere e proprie esecuzioni extragiudiziali ad opera delle forze di polizia e dell’esercito – è stata una delle operazioni di ordine pubblico più sanguinose nella storia recente del Brasile ma non si è trattato di una vicenda eccezionale.

Quella che è stata chiamata “Operazione contenimento” ha visto all’opera oltre 2500 agenti delle forze di sicurezza, che hanno aperto il fuoco durante l’incursione e dagli elicotteri contro una popolazione di persone nere e povere: ossia, persone che per i sostenitori e degli esecutori delle politiche di sicurezza valgono meno di zero.

Sebbene senza un bilancio dei morti così impressionante, la modalità dell’intervento di ripristino dell’ordine pubblico è stata la stessa del passato: incursioni senza ordine di un giudice, persone uccise con colpi d’arma da fuoco alla testa mentre avevano le mani alzate, impedimento dei soccorsi, criminalizzazione delle persone che denunciano l’accaduto e sua minimizzazione: “Ci sono state vittime solo nella polizia, lo stato può andare oltre le sue competenze nella guerra contro il crimine”, ha dichiarato Cláudio Castro, il governatore di Río de Janeiro.

Proprio Castro ha sulle spalle la responsabilità di altre quattro operazioni di polizia terminate con una strage, tra le quali quelle di Jacarezinho (2021) e di Vila Cruzeiro (2022).

Secondo le Nazioni Unite, la Commissione interamericana dei diritti umani e Amnesty International (che ha sollecitato un’indagine indipendente su quanto accaduto ad Alemão y Penha), la cosiddetta “guerra alla droga” nella metropoli brasiliana ha un carattere discriminatorio e si basa sul sistematico uso illegale della forza.