Myanmar, il governo non riesce a proteggere i rohingya

25 Maggio 2020

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In occasione del 23 maggio, data della presentazione alla Corte di giustizia internazionale di un rapporto sull’attuazione delle modalità di applicazione di “misure provvisorie” a protezione dei rohingya da parte del Myanmar, Nicholas Bequelin, direttore regionale di Amnesty International, ha dichiarato in una nota ufficiale: “Nonostante la decisione della Corte di giustizia internazionale, niente è cambiato per 600.000 rohingya, numero stimato, che vivono nello stato di Rakhine in condizioni disastrose e di cui circa 126.000 sono tenuti nei campi dalle autoritàAi rohingya nello stato di Rakhine sono ancora negati, fra gli altri, i diritti alla nazionalità, alla libertà di movimento e all’accesso ai servizi, compresa l’assistenza sanitaria. Inoltre, si trovano nel mezzo di un crescente conflitto armato tra le forze militari di Myanmar e l’esercito dell’Arakan.

Il Gambia si è rivolto alla Corte di giustizia internazionale l’11 novembre 2019 sostenendo che Myanmar avesse violato gli obblighi disposti dalla Convenzione sul genocidio del 1948. Nel ricorso ha chiesto con urgenza che la Corte adottasse “misure provvisorie” per prevenire ogni atto che potesse equivalere o contribuire al reato di genocidio contro i rohingya e proteggere la comunità da ulteriori danni in attesa della sentenza.

Le udienze pubbliche si sono tenute all’Aja dal 10 al 12 dicembre 2019. La delegazione di Myanmar, guidata da Aung San Suu Kyi, consigliera di stato e capo di stato di fatto, ha respinto le accuse di genocidio e ha chiesto alla Corte di rigettare il caso e rifiutare la richiesta di misure provvisorie.

“Senza Internet, i rohingya e altre minoranze negli stati di Rakhine e Chin sono stati privati di informazioni potenzialmente salvavita ed è stato impedito il monitoraggio della situazione umanitaria sul campo. Questo oscuramento delle informazioni mette ancora più a rischio le persone, specialmente riguardo alla pandemia da Covid-19.“, continua Nicholas Bequelin.

Il 23 gennaio 2020 la Corte di giustizia internazionale ha concesso le misure provvisorie e ordinato a Myanmar di presentare rapporto sulla loro attuazione entro quattro mesi e, poi, ogni sei mesi fino alla chiusura del caso. La decisione impone al Myanmar di “adottare ogni misura in suo potere” per proteggere i rohingya dal genocidio, per garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di genocidio e per impedire “istigazione pubblica” al genocidio.

“Sebbene le ultime direttive presidenziali in Myanmar che hanno ordinato al personale governativo di non commettere genocidi o distruggere prove sembrino coerenti con la decisione della Corte di giustizia internazionale, in realtà non sono stati fatti passi significativi nel porre fine alle atrocità, anche per quanto riguarda il crimine di apartheid.“, continua a dichiarare Nicholas Bequelin.

La decisione è arrivata solo pochi giorni dopo che la Commissione indipendente di inchiesta istituita dal governo di Myanmar ha presentato la sua relazione finale sullo stato di Rakhine al presidente di Myanmar. La Commissione ha concluso che mentre le forze di sicurezza in Myanmar potrebbero essere responsabili di crimini di guerra e di “uso eccessivo della forza“, non sono emerse prove dell’intento genocida. La versione integrale della relazione non è stata ancora resa pubblica.

Da febbraio, lo scontro tra le forze di sicurezza di Myanmar e l’Esercito dell’Arakan, un gruppo etnico armato del Rakhine, si è inasprito nello stato di Rakhine e nel confinante stato di Chin; vengono segnalate gravi violazioni e un crescente numero di vittime civili, tra le quali un membro dello staff dell’Organizzazione mondiale della sanità ucciso durante gli scontri il 20 aprile. Forze di sicurezza e gruppo armato si sono accusati a vicenda dell’aggressione.

Da tempo è necessaria un’ulteriore direttiva che imponga ai funzionari di mettere fine ai ‘discorsi d’odio’, ma mancano le garanzie sufficienti affinché non venga utilizzata per limitare ancora maggiormente la libertà di espressione. Senza un follow-up significativo e una chiara trasparenza sul rispetto della decisione della Corte da parte del Myanmar, queste misure non possono che essere solo d’apparenza.“, commenta ancora Nicholas Bequelin.

Un cessate il fuoco unilaterale adottato in considerazione della pandemia da Covid-19 non è applicato alle aree in cui le forze militari di Myanmar combattono contro l’Esercito dell’Arakan, definito dalle autorità del Myanmar “organizzazione terroristica“.

Fin quando non ci sarà una vera assunzione di responsabilità di coloro che hanno commesso crimini riconosciuti dal diritto internazionale, ci sono poche speranze che le vite dei rohingya e delle altre minoranze etniche negli stati di Rakhine, Kachin e Shan settentrionale migliorino. Queste popolazioni ancora soffrono per le dilaganti violazioni dei diritti umani per mano delle autorità di Myanmar. Amnesty International rinnova il suo appello al Consiglio di sicurezza dell’Onu affinché riferisca con urgenza della situazione in Myanmar al Tribunale penale internazionale.”, conclude Nicholas Bequelin.