Ue: ecco perché il Regolamento sui rimpatri va respinto

15 Settembre 2025

Credit: Michele Spatari/NurPhoto

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Il 4 settembre il Consiglio dell’Unione europea (Ue) ha terminato la lettura tecnica della proposta di Regolamento sui rimpatri, presentata lo scorso 11 marzo dalla Commissione europea con l’obiettivo di sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri. Dietro il nome eufemistico, la proposta delinea misure coercitive, traumatiche e lesive dei diritti, fondate sull’imperativo di aumentare i numeri delle deportazioni. Invece di concentrarsi su protezione, alloggio, sanità e istruzione, il Regolamento si fonda su politiche punitive, centri di detenzione, deportazioni e misure di coercizione.

Il Regolamento sui rimpatri – o, come sarebbe più appropriato chiamarlo, il “Regolamento sulle deportazioni” – fa parte di un più ampio approccio della politica migratoria europea che tende a caratterizzare la mobilità umana come una minaccia, così da giustificare deroghe ai doveri degli stati rispetto alla tutela dei diritti fondamentali. Le istituzioni e gli stati membri dell’Ue hanno reso la criminalizzazione, la sorveglianza e la discriminazione strumenti sempre più ordinari della governance migratoria – invece di puntare su protezione, sicurezza, misure di inclusione sociale, ampliamento dei canali sicuri e regolari e permessi di soggiorno basati sui diritti.

Più di 200 organizzazioni chiedono che questo Regolamento venga respinto. È guidato da logiche di detenzione, deportazione, esternalizzazione e punizione, soprattutto nei confronti delle persone razzializzate, e comporterà che un numero sempre maggiore di persone venga spinto in un limbo giuridico e in condizioni pericolose. Chiediamo alla Commissione europea di ritirare la proposta e sollecitiamo il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea a respingerla nella sua forma attuale.

Il Regolamento deve essere respinto per i seguenti motivi:

  1. Deportazioni verso paesi senza alcun legame e centri offshore di deportazione (Artt. 4, 17)

Questa proposta – insieme alle modifiche previste dal Regolamento sulle procedure d’asilo – renderebbe possibile, per la prima volta, deportare una persona contro la sua volontà verso un paese extra-Ue con cui non ha alcun legame personale, che abbia solo brevemente attraversato o in cui non abbia mai messo piede.

Mandare qualcuno contro la propria volontà in un paese con cui non ha alcun legame non può in alcun modo essere considerato ragionevole, giusto o sostenibile. Misure di questo tipo distruggerebbero famiglie e comunità in tutta Europa, minando il tessuto di solidarietà su cui le persone fanno affidamento per vivere con dignità. L’espansione delle opzioni di “ritorno” solleva serie preoccupazioni sui diritti fondamentali, incluso il rischio che le persone rimangano bloccate in paesi terzi, la sicurezza e dignità della rimozione, la sostenibilità dei percorsi di inclusione e reintegrazione e l’accesso a supporto, diritti e servizi. Queste misure si applicherebbero anche a famiglie e minori, con limitate eccezioni.

Il Regolamento proposto consente inoltre l’istituzione dei cosiddetti “hub di ritorno”, molto probabilmente destinati a diventare centri di detenzione simili a prigioni, al di fuori del territorio Ue, per ospitare coloro che attendono la deportazione. Si tratta di una grave deviazione dal diritto internazionale e dagli standard sui diritti umani. Questi hub comporterebbero numerose violazioni dei diritti, tra cui detenzione arbitraria automatica, respingimenti diretti e indiretti (negli hub o tramite deportazioni successive) e negazione dell’accesso a garanzie legali e procedurali. Allo stesso tempo rafforzerebbero pratiche discriminatorie e solleverebbero gravi difficoltà nel monitorare le condizioni dei diritti umani e nel determinare la giurisdizione di riferimento e le responsabilità legali. Le disposizioni attuali del Regolamento sono, inoltre, vaghe e non stabiliscono standard vincolanti, aggravando queste preoccupazioni. In linea con tentativi passati di esternalizzare o delocalizzare le responsabilità in materia di asilo, come quelli di Australia, Regno Unito o Italia, tali proposte rischiano di avere costi esorbitanti, creare gravi rischi diplomatici e reputazionali e ampliare le divergenze tra le politiche migratorie e di asilo degli stati Ue. Deviano risorse verso forme punitive di governance migratoria invece che verso politiche che privilegino protezione, cura e sicurezza.

  1. Nuovi obblighi per gli stati di “individuare” e sorvegliare (Art. 6)

La proposta impone agli stati di introdurre misure per rilevare le persone che soggiornano irregolarmente nei loro territori. Oltre 80 organizzazioni hanno avvertito che disposizioni simili nel Regolamento screening 2024 avrebbero comportato un aumento del profiling razziale e di trattamenti discriminatori. Tali disposizioni aprono la strada all’espansione di pratiche di polizia razziste e retate migratorie che alimentano paura nelle comunità razzializzate e migranti. Inoltre, misure di rilevamento legate all’applicazione delle leggi sull’immigrazione creano seri rischi per i diritti umani, compresi il diritto alla salute, i diritti sul lavoro e la dignità umana, poiché la paura delle autorità scoraggia le persone senza documenti dal cercare cure sanitarie, denunciare abusi o accedere a protezione. Queste misure possono anche generare conflitti etici per i professionisti e minare la fiducia nei servizi pubblici. Infine, minacciano i diritti alla privacy attraverso la condivisione insicura di dati sensibili, inclusi dati sanitari, violando gli standard Ue sulla protezione dei dati ed erodendo le libertà dell’intera società.

  1. Più persone spinte nell’irregolarità e nel limbo giuridico (Artt. 7, 14)

La proposta obbliga gli stati a emettere ordini di deportazione insieme a qualsiasi decisione che ponga fine a un soggiorno regolare, senza considerare in anticipo altre possibilità di status a livello nazionale (come permessi per motivi umanitari, nel miglior interesse del minore, per motivi medici o familiari, così come nelle procedure di determinazione dell’apolidia o in altri casi in cui la deportazione non sia possibile). Combinata con regole simili del Patto su migrazione e asilo, che collegano decisioni di diniego d’asilo a ordini di deportazione, questa misura aumenterebbe ulteriormente gli ostacoli all’accesso a permessi di soggiorno nazionali. Allarmante è anche la previsione di emettere ordini di deportazione con l’indicazione di più paesi di possibile rimpatrio quando non se ne riesca a identificare uno solo.

La proposta indebolisce inoltre le protezioni per chi non può essere deportato – spesso non per colpa propria. Pur prevedendo il rinvio della “rimozione” in caso di rischio di respingimento, elimina l’attuale obbligo di identificare e valutare altre circostanze individuali, ignorando che in molti casi il “ritorno” può non essere appropriato o addirittura possibile, ad esempio in caso di apolidia o per altri motivi legati ai diritti umani.

Ciò evidenzia l’incoerenza di una proposta sviluppata con l’obiettivo fallace di “aumentare i tassi di ritorno”, che allo stesso tempo gonfia artificialmente il numero di persone con un ordine di deportazione. Di conseguenza, molte più persone saranno spinte nell’irregolarità e in un limbo giuridico, private di diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria, ed esposte a indigenza, senzatetto, sfruttamento o detenzione prolungata. Queste politiche non danneggiano solo gli individui: destabilizzano e creano ulteriore paura e insicurezza, soprattutto tra persone migranti e razzializzate e le comunità di cui fanno parte.

  1. Grave espansione della detenzione (Artt. 29-35)

La proposta promuove l’uso sistematico della detenzione da parte degli stati. Estende significativamente la durata massima della detenzione, da 18 a 24 mesi. Questa estensione è sproporzionata e inefficace, e non farebbe altro che approfondire le violazioni dei diritti, della dignità e della salute delle persone. Allarga inoltre i criteri per la detenzione, includendo condizioni che, di fatto, riguardano la maggior parte delle persone entrate irregolarmente in Europa o che si trovano senza documenti, in contrasto con il principio di proporzionalità e necessità. Per esempio, la semplice mancanza di documenti o la condizione di senzatetto sarebbero motivi sufficienti per la detenzione.

La proposta consente la detenzione di minori, nonostante il diritto internazionale e gli standard sui diritti umani indichino chiaramente che si tratta sempre di una violazione dei diritti di bambini e bambine e mai nel loro interesse superiore, e nonostante l’impegno globale dei governi a porre fine a questa pratica. Altri gruppi vulnerabili, così come persone che non possono essere deportate, sarebbero anch’essi soggetti a detenzione. Inoltre, la proposta sembra consentire la detenzione a tempo indeterminato di individui considerati “rischi per la sicurezza”, tramite decisione giudiziaria. Consente anche agli stati membri di derogare a garanzie di base sulla detenzione se i sistemi affrontano un “onere imprevisto e grave”, definizione vaga.

L’espansione della capacità di detenzione creerà nuove opportunità lucrative per appaltatori privati che gestiscono i centri, incentivando la crescita di un’industria della detenzione a spese dei diritti e della dignità delle persone.

Le “alternative alla detenzione”, o misure non detentive, come proposte dalla Commissione, non servirebbero al loro scopo di vere alternative e non sarebbero da considerare prima della detenzione. Potrebbero essere utilizzate in aggiunta alla detenzione o dopo che i limiti di tempo siano stati superati. Questi sviluppi rappresentano una significativa espansione della detenzione migratoria, che non verrebbe più trattata come misura di ultima istanza o per il periodo più breve possibile, in chiara tensione con i requisiti del diritto internazionale.

  1. Misure punitive e coercitive (Artt. 10, 12, 13, 16, 22, 29)

La proposta introduce obblighi di cooperazione estesi, sproporzionati e irrealistici per le persone destinatarie di ordini di deportazione, come fornire documenti d’identità che potrebbero non possedere, sottoporsi a perquisizioni personali o dei propri beni o cooperare con paesi terzi per ottenere documenti di viaggio. Questi obblighi sono accompagnati da pesanti sanzioni in caso di “mancata cooperazione”, incluse multe, divieti di ingresso, restrizioni alla partenza volontaria e rifiuto di benefici, indennità o permessi di lavoro.

Senza un modo effettivo per contestare la valutazione di “mancata cooperazione” o garantire che le persone non vengano penalizzate per circostanze fuori dal loro controllo – come apolidia, barriere digitali o di alfabetizzazione, età, salute o traumi – queste misure rischiano di essere applicate arbitrariamente e di punire in modo sproporzionato persone in situazioni socioeconomiche vulnerabili.

La proposta introduce anche un ulteriore spostamento dalla “partenza volontaria” alla “rimozione forzata”, rendendo la deportazione l’opzione predefinita. Pur essendo già discutibile la nozione di volontarietà in simili circostanze, la proposta restringe ulteriormente le opzioni e l’autonomia delle persone, rimuovendo persino l’attuale periodo minimo di sette giorni per la partenza volontaria.

Sono previste deroghe specifiche per chi “costituisce una minaccia all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica o alla sicurezza nazionale” – motivi vagamente definiti e facilmente applicabili in modo abusivo. Qualsiasi caso che comporti un rischio per la sicurezza o riguardi una condanna penale dovrebbe essere trattato nel contesto della giustizia penale con le garanzie di un giusto processo.

  1. Erosione dei diritti di ricorso (Art. 28)

In continuità con quanto già previsto dal Patto, la proposta elimina l’effetto sospensivo automatico dei ricorsi contro l’esecuzione di una decisione di deportazione. L’effetto sospensivo dovrà essere richiesto insieme al ricorso, o concesso d’ufficio. Ciò crea un ulteriore livello di complessità per le persone a rischio di deportazione e per le autorità giudiziarie, e rimuove una garanzia essenziale al diritto a un ricorso effettivo.

In assenza di un tempo minimo obbligatorio per i ricorsi (la proposta prevede solo che il termine non superi i 14 giorni), gli stati membri potrebbero rendere di fatto impossibile per le persone contestare efficacemente gli ordini di deportazione, in contrasto con la giurisprudenza consolidata delle corti europee.

  1. Sorveglianza digitale estesa e violazioni della protezione dei dati (Artt. 6-9, 23, 38-41)

La proposta amplia la sorveglianza digitale delle persone nei procedimenti di deportazione, denunciata da esperti di diritti digitali e dal Garante europeo della protezione dei dati. Include la raccolta e condivisione estesa di dati personali, compresi dati sensibili sulla salute e precedenti penali, tra stati membri Ue e con paesi terzi privi di adeguati standard di protezione.

Prevede inoltre l’uso di tecnologie intrusive nei centri di detenzione, così come di “alternative digitali alla detenzione”, come tracciamento GPS e sorveglianza tramite telefoni cellulari, che, pur essendo presentate come alternative, restano altamente intrusive e possono equivalere a una detenzione di fatto. Queste tecnologie creano anche nuovi mercati redditizi per le aziende di sorveglianza.

La creazione di un “Ordine europeo di rimpatrio”, archiviato nel Sistema d’informazione Schengen (SIS), fonde ulteriormente la gestione migratoria con il controllo di polizia, con la previsione di condivisione dei dati con le forze dell’ordine. Sono documentati abusi e mancato rispetto degli standard legali sulla privacy da parte delle autorità nell’uso del SIS, aumentando il rischio di violazioni e usi impropri dei dati.

  1. Mancanza di valutazioni d’impatto e consultazioni

Come altre recenti proposte legislative in materia di migrazione, questa proposta della Commissione europea è stata emessa senza una valutazione d’impatto sui diritti umani né consultazioni formali, incluse quelle con le parti sociali, in un ambito in cui le politiche basate su evidenze sono particolarmente cruciali. Ciò è contrario all’Accordo interistituzionale sul miglior processo legislativo e alle Linee guida della Commissione sulla “better regulation”, che richiedono una valutazione d’impatto preliminare quando una proposta legislativa ha significativi effetti sociali e quando esistono diverse opzioni di policy.

Una valutazione preventiva dei diritti fondamentali è essenziale per garantire il rispetto della Carta dei diritti fondamentali, del principio di non-refoulement, del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, della libertà personale, dei diritti dell’infanzia, del diritto a un ricorso effettivo, della vita privata e familiare, della privacy e della protezione dei dati, nonché della non-discriminazione.

  1. Trascurate le alternative al controllo migratorio punitivo

La proposta riflette il falso presupposto che la deportazione debba essere l’unica opzione per le persone la cui domanda d’asilo è stata respinta o il cui permesso di soggiorno è scaduto o revocato. Per ridurre il numero di persone intrappolate nell’irregolarità, gli stati Ue dovrebbero garantire l’accesso ai permessi già previsti legati ai diritti umani ed estendere le possibilità di un’ampia gamma di permessi di soggiorno che consentano alle persone di pianificare le proprie vite, lavorare regolarmente, studiare e partecipare pienamente a tutti gli aspetti economici, sociali e culturali delle società in cui vivono.

Conclusione

Chiediamo all’Ue di smettere di assecondare sentimenti razzisti e xenofobi e interessi aziendali, e di invertire la deriva punitiva e discriminatoria della sua politica migratoria. Le risorse devono essere destinate a politiche basate su sicurezza, protezione e inclusione, che rafforzino le comunità, tutelino la dignità e garantiscano a tutte le persone di vivere in sicurezza indipendentemente dallo status.

Le istituzioni e gli stati membri dell’Ue devono respingere misure di deportazione basate su approcci punitivi e coercitivi, che abbassano gli standard dei diritti umani e colpiscono in modo sproporzionato le persone razzializzate. Alla luce delle preoccupazioni sopra esposte, chiediamo alla Commissione europea di ritirare questa proposta e sollecitiamo il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue a respingerla.