25° anniversario del genocidio di Srebrenica. Le vittime attendono ancora giustizia

10 Luglio 2020

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Dopo 25 anni da quando il mondo girò lo sguardo di fronte al peggiore crimine commesso sul suolo europeo dal 1945, le famiglie delle vittime del genocidio di Srebrenica attendono ancora giustizia.

Nel giro di alcuni giorni del luglio 1995, in quello che è passato alla storia come il genocidio più breve, vennero uccisi almeno 8372 (secondo la commissione diretta dall’ex ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, rapporteur speciale della Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani) o più verosimilmente, secondo i sopravvissuti e altre testimonianze, almeno 10700 musulmani bosniaci, per la maggioranza ragazzi e uomini.

Il genocidio fu perpetrato da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladić (condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia), in quella che nel 1993 era stata dichiarata dalle Nazioni Unite “zona protetta” e che si trovava, nel 1995, sotto la tutela di un contingente olandese.

La “zona protetta” di Srebrenica fu delimitata dopo un’offensiva serba del 1993 che obbligò le forze bosniache a una demilitarizzazione sotto controllo dell’ONU. Le delimitazioni delle zone protette furono stabilite a tutela e difesa della popolazione civile bosniaca, quasi completamente musulmana.

Il 9 luglio 1995, la “zona protetta” di Srebrenica e il territorio circostante furono circondati dalle truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, che l’11 luglio riuscì a entrare definitivamente nella città.

Perché Srebrenica? Perché era un’anomalia: un’enclave a maggioranza musulmana in una parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata”.

Per far aderire sul campo i confini della “nuova” Bosnia, che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Tutti erano d’accordo che Srebrenica dovesse essere sacrificata, la storia (non la giustizia, purtroppo) ci dirà se i leader internazionali dell’epoca erano consapevoli del progetto genocida che si stava per compiere.

Dall’11 luglio, i maschi dai 12 ai 77 anni (e, come si vedrà, non solo loro) furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati; in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni.

Circa 15000 uomini e ragazzi cercarono rifugio in quella che fu chiamata la Marcia della morte fra Srebrenica e Tuzla e solo 6000 riuscirono a salvarsi, scappando attraverso boschi e villaggi su strade accidentate e sentieri fangosi, percorrendo oltre 100 chilometri. Ancora oggi in memoria di quel percorso molte presone lo percorrono a ritroso per 35 km al giorno, in quella che oggi è chiamata la Marcia della Pace. Anche quest’anno, ci sarà questa marcia ma con solo 700 persone (rispetto alle migliaia degli anni passati), un numero contingentato per l’emergenza sanitaria in corso.

L’orrore delle loro storie è accentuato dal fatto che i massacri si sono svolti solo in pochi giorni. Anche se si riesce a controllare le emozioni, considerando solo le cifre, il risultato è sconcertante: circondare migliaia di uomini, catturarli, ucciderli, bruciarli, scavare fosse per seppellirli – si tratta di uno sforzo mostruoso che può essere portato a termine in alcuni giorni solo se ci sono migliaia e migliaia di perpetratori. Il solo cercare di comprendere la portata del genocidio è insopportabile, ascoltare i particolari delle storie raccontate dai sopravvissuti è straziante. Immaginare migliaia e migliaia di uomini armati che perlustrano i boschi in cerca della loro preda e chiedersi: “Perché?”

Nel processo di primo grado nei confronti dell’ex leader militare serbo bosniaco Ratko Mladić, terminato con la condanna all’ergastolo, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha riconosciuto le responsabilità individuali di Mladić, in quanto comandante dell’esercito serbo bosniaco, giudicandolo colpevole di 10 imputazioni su 11. L’ex generale serbo bosniaco è stato giudicato responsabile, tra l’altro, di genocidio, persecuzione per motivi etnici e religiosi ai danni di musulmani bosniaci e croato bosniaci, sterminio, deportazione, omicidio, terrore, attacchi illegali contro i civili e cattura di ostaggi. Il processo è stato uno dei più lunghi della storia, a causa della vastità delle accuse, della quantità di prove (compresi 592 testimoni) e dei vari tentativi della difesa di ritardare o far terminare il procedimento giudiziario. Il processo d’appello, più volte rinviato per motivi di salute dell’imputato e poi a causa della pandemia da Covid-19, si svolgerà nel 2021.

Circa 6700 corpi (anche se Commissione internazionale per le persone scomparse parla di oltre 7000) di persone sono state riconosciute, solo 33 nel 2019, sono stati riesumati, identificati e sepolti nel Memoriale di Potocari dove ogni 11 luglio si svolge una dolorosa cerimonia commemorativa: tra questi, 421 bambini, un neonato e una donna di 94 anni. Sono numerose perciò le persone che non hanno ancora neanche una tomba dove piangere i loro cari uccisi nel genocidio.

L’Istituto nazionale per le persone scomparse subisce, anno dopo anni, tagli dei finanziamenti e questo accresce le difficoltà di riuscire, col passare del tempo, a dare un nome a poveri resti umani.

I leader politici e le leggi della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, una delle due entità che gli accordi di Dayton del 1995 hanno creato nella Bosnia pre-guerra, non hanno ancora riconosciuto il genocidio di Srebrenica, al quale non vi è alcun riferimento persino nei programmi scolastici. Il processo di riconciliazione non ha fatto passi avanti, anche per un clima islamofobico dilagante, e le divisioni tra i gruppi nazionali all’interno del paese proseguono.

Nonostante i processi conclusi dal Tribunale penale per l’ex Jugoslavia e quelli ancora in corso presso il cosiddetto “Meccanismo residuale internazionale” nei confronti dei principali ideatori del genocidio di Srebrenica, e la condanna di altri 74 imputati, il numero dei casi giudiziari irrisolti è estremamente lungo e, salvo i casi particolarmente gravi, tutte le cause “minori” sono passate ai tribunali locali.

Amnesty International è molto preoccupata per l’impunità dilagante che ne è derivata. I processi per crimini di diritto internazionale nei tribunali della Bosnia ed Erzegovina sono molto lenti e condizionati da fattori esterni, tra cui l’assenza di programmi di protezione per i sopravvissuti e i testimoni.

In assenza della necessaria volontà politica, la stragrande maggioranza delle persone sospettate di crimini di guerra e crimini contro l’umanità non verrà mai chiamata a rispondere del suo operato.

Nel frattempo prende campo il negazionismo: per questo le “Madri di Srebrenica“, sdegnate e amareggiate, hanno chiesto ufficialmente al Comitato per il Nobel di revocare l’assegnazione del riconoscimento per la letteratura a Peter Handke. A distanza di 25 anni, le donne di Srebrenica continuano a piangere i loro morti. Alcuni resti non si troveranno mai più. Le autorità della Bosnia Erzegovina post-Dayton le hanno lasciate sole.