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Amnesty International ha denunciato oggi che la comunità dei difensori dei diritti umani dell’Afghanistan è sotto un crescente attacco da parte delle autorità e dei gruppi armati.
Ogni anno viene superato il numero di vittime civili di quello precedente e il mese di luglio è stato il più violento da oltre due anni a questa parte. In questo contesto, l’azione dei difensori dei diritti umani viene ampiamente ignorata dal governo afgano e dalla comunità internazionale.
Nel suo rapporto “Difensori indifesi: gli attacchi contro la comunità dei diritti umani in Afghanistan“, Amnesty International denuncia che il governo ha ripetutamente mancato di indagare sugli attacchi contro i difensori dei diritti umani, a volte accusandoli addirittura di aver fatto false denunce o suggerendo loro di armarsi per difendersi autonomamente.
“Quello attuale è uno dei periodi più pericolosi per i difensori dei diritti umani in Afghanistan. Non solo operano in un ambiente tra i più estremi ma devono anche fronteggiare minacce da parte sia del governo che dei gruppi armati“, ha dichiarato Omar Waraich, vicedirettore di Amnesty International per l’Asia meridionale.
“La comunità internazionale ha un ruolo importante da giocare. Se da un lato ha sempre riconosciuto il coraggio dei difensori dei diritti umani afgani, dall’altro non ha valorizzato i risultati che hanno raggiunto e non li ha sostenuti concretamente in momenti via via sempre più difficili“, ha commentato Waraich.
Nel suo rapporto, Amnesty International denuncia casi di difensori dei diritti umani minacciati, intimiditi, feriti e uccisi in attacchi su cui le autorità afgane non hanno svolto indagini né avviato procedimenti giudiziari.
Nell’ottobre 2015, ad esempio, due esponenti della Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan sono stati uccisi e altri due sono rimasti feriti in un attentato esplosivo nella provincia orientale di Nangarhar. Da allora il governo non ha arrestato nessuno e non si hanno notizie sulle indagini.
Nel settembre 2016 Khalil Parsa, un attivista della provincia di Herat, è sopravvissuto a sei colpi di arma da fuoco. Era stato più volte minacciato che, se non avesse cessato di occuparsi di diritti umani, le conseguenze sarebbero state estreme. Quando si era recato alla Direzione per la sicurezza nazionale (i servizi d’intelligence) gli era stato risposto di avvisare se le minacce si fossero ripetute. Poi aveva appreso che il governo aveva deciso di non indagare.
Nell’ottobre 2018 “Mohamed” (il suo vero nome è celato per motivi di sicurezza) è stato aggredito nei pressi della sua abitazione a Kabul e ha riportato ferite al fegato. Ha chiesto aiuto alle autorità ma non gli è stata accordata alcuna misura di protezione. Anzi, gli è stato suggerito di comprare una pistola e di “proteggersi per conto suo”. Dopo l’aggressione è stato costretto a lasciare la capitale.
“Hasiba” (anche in questo caso non è il vero nome) è un’avvocata che difende le donne che hanno subito violenza domestica, cercano di divorziare o sono sotto processo per presunti reati. A partire dal 2017 ha subito una serie di attacchi, anche con l’acido. La polizia non ha dato seguito alle sue denunce e l’avvocata è stata costretta a chiudere il suo studio legale per sette mesi.
Nel dicembre 2016 il presidente afgano Ashraf Ghani si era impegnato a difendere i difensori e gli attivisti dei diritti umani: “La [loro] protezione è questione su cui il mio governo, il parlamento e la magistratura hanno piena responsabilità“, aveva dichiarato a una conferenza della Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan.
Invece di rispettare questo impegno, il governo afgano si è reso responsabile di intimidazioni, vessazioni e minacce.
Nel giugno 2016 le autorità hanno fatto ricorso alla forza eccessiva per disperdere una manifestazione convocata a Kabul in piazza Zanbaq per protestare contro l’enorme numero di vittime civili nel conflitto.
In occasione di una precedente protesta uno degli organizzatori era stato contattato dall’ufficio del presidente e invitato a smontare le tende dei manifestanti per evitare di essere attaccati dai gruppi armati. Egli aveva interpretato l’invito come una minaccia.
Nel maggio 2017, in occasione dell’esame dell’Afghanistan da parte del Comitato Onu contro la tortura, un gruppo della società civile è stato obbligato a rimuovere i nomi di alcuni alti funzionari del governo dal “rapporto ombra” che intendeva presentare alle Nazioni Unite.
Tutta questa situazione ha portato molti difensori e attivisti dei diritti umani ad affermare di non avere più alcuna fiducia nel governo.
Questa sensazione è stata esacerbata da casi in cui le autorità hanno accusato i difensori dei diritti umani di aver inventato le minacce nei loro confronti o di aver rifiutato la protezione offerta dal governo.
“Shahzad” (non è il suo vero nome) è stato recentemente minacciato dai talebani su Facebook con questo messaggio: “Sei il servo dei giudei e degli infedeli. Abbiamo detto ai mujahedin di mandarti all’inferno”.
“Shahzad” ha segnalato la minaccia alla Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan, che a sua volta ha informato la Direzione per la sicurezza nazionale. La reazione è stata che “Shazad” si era inventato tutto.
Due attivisti intervistati da Amnesty International hanno dichiarato che, dopo aver denunciato attacchi nei loro confronti, non hanno ricevuto protezione e gli è stato suggerito di comprare delle armi e proteggersi da soli.
“I difensori dei diritti umani mostrano un grande coraggio nonostante il difficile contesto nel quale operano. Nonostante le gravi minacce continuano a denunciare le ingiustizie e a difendere i diritti di tutti. Le autorità afgane e la comunità internazionale devono stare dalla loro parte e difendere i loro diritti“, ha concluso Waraich.