Amnesty International, Moazzam Begg e Gita Sahgal

2 Marzo 2010

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2 marzo 2010

Replica di Claudio Cordone, Segretario generale ad interim di Amnesty International, a un articolo del Corriere della Sera

Il commento di Christopher Hitchens, ‘Se Amnesty smarrisce il senso della sua lotta’, pubblicato sabato 27 febbraio, fa parte di una polemica contro Amnesty International che va avanti da tre settimane ed è caratterizzata da una buona dose di mancanza d’informazioni e distorsioni. 
 
Al centro di questa polemica c’è una questione importante: come un’organizzazione per i diritti umani lavora con altri soggetti e, soprattutto, come può dare voce alle vittime senza promuovere necessariamente tutti i punti di vista di queste ultime.
 
Si tratta di un dibattito familiare all’interno di Amnesty International. Da decenni, valutiamo se e come lavorare insieme a singole persone e a organizzazioni. Siamo regolarmente accusati di mescolarci con la parte sbagliata, di venire manipolati o di avere un’agenda segreta. Non ci vantiamo di avere sempre la risposta migliore e sappiamo, per esperienza, che le decisioni in merito sono difficili. Ciò nonostante, qui di seguito, vorrei fare alcune considerazioni.
 
Ci sono persone con cui non lavoreremmo mai insieme, pur svolgendo senza alcuna remora campagne contro ogni violazione dei loro diritti. Per esempio, abbiamo denunciato la pratica del waterboarding nei confronti di Khaled Sheikh Muhammad, il detenuto di Guantánamo che rivendica di aver avuto un ruolo di primo piano nelle atrocità dell’11 settembre. Non condivideremmo mai un progetto con una persona, come lui, che promuove apertamente un’ideologia che predica l’odio e l’uccisone dei civili (in altri termini, posizioni che sono chiaramente antitetiche ai diritti umani). In un caso del genere la risposta è semplice. In altri, lo è di meno.

Aver svolto iniziative in favore dei detenuti di Guantánamo insieme a Moazzam Begg e alla sua organizzazione, Cageprisoners, ci ha fatto guadagnare l’accusa di essere filo-talebani e di promuovere la violenza e la discriminazione contro le donne. Guardiamo i fatti. Di recente, abbiamo svolto un’azione insieme a Begg e ad altre Organizzazioni non governative per convincere governi europei ad accogliere nel loro territorio detenuti il cui rilascio è stato autorizzato dagli Usa, ma che rischierebbero di subire violazioni dei diritti umani qualora rimandati nel paese di origine.
 
Begg è stato uno dei primi detenuti a essere rilasciato da Guantánamo e a fornire informazioni, in un periodo in cui quanto accadeva nel campo di detenzione era circondato dal segreto. Begg parla della propria esperienza, delle violazioni dei diritti umani che ha subito. Sostiene il diritto dei detenuti a un processo equo e lo fa muovendosi all’interno dello stesso sistema di norme universali sui diritti umani che Amnesty International promuove. Tutte buone ragioni, riteniamo, per parlare insieme a lui di Guantánamo.
 
Begg e altri affiliati all’organizzazione Cageprisoners hanno ulteriori opinioni e le affermano pubblicamente: per esempio se avviare colloqui coi talebani. Queste opinioni sono antitetiche ai diritti umani? La nostra risposta è no, anche se ovviamente possiamo non condividerle. Tutte le persone che stanno prendendo parte alla campagna per chiudere Guantánamo hanno idee diverse sulla religione, sulla laicità, sulla lotta armata, sulla pace e sui negoziati. 
 
Il resto che abbiamo sentito e letto contro Begg a partire dal 7 febbraio comprende molte distorsioni, insinuazioni e accuse di ‘concorso associativo’. Begg ha risposto a tutto questo. Se emergessero prove che Begg o Cageprisoners hanno promosso idee antitetiche ai diritti umani, o sono stati coinvolti in azioni delittuose, Amnesty International cesserebbe immediatamente ogni attività congiunta. Ma farlo oggi sulla base di ciò che finora è stato detto e scritto, significherebbe tradire un principio fondamentale di correttezza che è anche alla base di ciò per cui lavoriamo: si è innocenti fino a prova contraria, anche nel contesto di polemiche mediatiche come quella attuale.

La polemica nata il 7 febbraio, alimentata da personalità conosciute ma che hanno dimostrato poco interesse per i fatti, ha inoltre dato vita alla percezione che l’azione di Amnesty International sia in qualche modo debole sui diritti delle donne e ‘tiepida’ nei confronti dei gruppi armati come i talebani. Questo è assurdo. Abbiamo lanciato una campagna globale per porre fine alla violenza contro le donne nello stesso periodo in cui lottavamo per la chiusura di Guantánamo. Abbiamo regolarmente denunciato e condannato le violazioni commesse dai talebani e da altri gruppi armati islamisti ovunque avessero luogo. A fine gennaio, mentre a Londra si svolgeva la conferenza sull’Afghanistan, abbiamo chiesto che i diritti umani, inclusi quelli delle donne, non fossero considerati una merce di scambio durante i colloqui coi talebani. La documentazione su tutte queste attività è pubblica e disponibile per chiunque voglia giudicare.
 
Infine, le decisioni su come lavorare al meglio insieme ad altre persone e organizzazioni sono prese sulla base di un franco dibattito interno. Siamo un’organizzazione di attiviste e attivisti che hanno e difendono opinioni differenti su come raggiungere gli obiettivi comuni: il dissenso non solo è inevitabile, ma è anche benvenuto. Rivediamo regolarmente decisioni prese in passato. Nessun funzionario di Amnesty International è mai stato sottoposto a sanzioni per aver espresso il proprio punto di vista su un argomento.

Gita Sahgal ha contribuito in modo significativo al lavoro di Amnesty International sulle discriminazioni di genere e non le è mai stato impedito di esprimere il suo punto di vista. Il memorandum interno del 30 gennaio, citato dal Sunday Times, dove lei ribadiva le sue preoccupazioni, lo ha scritto su richiesta della direzione di Amnesty International. Sebbene le sue argomentazioni non fossero nuove, avevamo infatti deciso di esaminarle ancora una volta e l’avevamo informata di questo. Con nostro rammarico, pochi giorni dopo, lei ha parlato al Sunday Times
 
Abbiamo sospeso Gita Sahgal per chiarire che non parla più a nome di Amnesty International, dopo che lei ha reso pubblica la sua contrarietà, in un contesto in cui i mezzi d’informazione hanno mal descritto tutta la situazione. La sospensione non è una sanzione: Gita rimane una dipendente di Amnesty International, a stipendio pieno, mentre è in corso l’inchiesta interna secondo le nostre politiche condivise in materia di lavoro, che le offrono tutte le possibilità di dimostrare la giustezza delle sue tesi. Per tutelare coloro che sono coinvolti in una vicenda relativa al personale, le nostre politiche chiedono a tutti di mantenere la riservatezza. Ne parliamo pubblicamente solo nella misura in cui è necessario per replicare a informazioni inaccurate fornite all’opinione pubblica.
 
Amnesty International è impegnata a lavorare in partnership e a dare voce alle vittime, mantenendo sempre la propria imparzialità e facendo un chiaro distinguo tra difendere i diritti delle persone e propagandare i loro punti di vista. Questo distinguo è un punto fermo importante, oggi più che mai, soprattutto quando sono in ballo questioni legate al terrorismo e al controterrorismo. 
 
Valutiamo regolarmente il nostro lavoro anche in questo ambito e siamo contenti quando persone impegnate nella difesa dei diritti umani e che condividono le nostre sfide e i nostri obiettivi, commentano quello che facciamo o ci danno suggerimenti. Allo stesso tempo, rimaniamo fermi nel basare la nostra azione sui fatti e sull’obiettivo di promuovere i diritti umani.