I lavoratori migranti sono al centro della realizzazione del sogno del Qatar di ospitare la Coppa del Mondo FIFA 2022. Ma 10 anni dopo che la FIFA ha assegnato il torneo al Qatar, migliaia di loro vengono ancora sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli.
Oggi, mentre la FIFA è destinata a generare enormi entrate dalla Coppa del Mondo, i lavoratori migranti stanno ancora soffrendo per far sì che i mondiali abbiano luogo. Le recenti riforme del Qatar non vengono correttamente attuate o applicate, il che significa che molte aziende non pagano ancora adeguatamente i propri dipendenti o non li trattano in modo equo. I datori di lavoro hanno ancora un controllo eccessivo sulla vita dei loro lavoratori: possono costringerli a lavorare un numero di ore eccessive o impedire loro di cambiare lavoro. Quando i lavoratori migranti vengono sfruttati, è molto difficile per loro ottenere giustizia o risarcimenti. Non possono aderire ai sindacati, quindi non possono lottare collettivamente per migliori condizioni di lavoro.
Quando la FIFA ha deciso di far svolgere le gare della Coppa del Mondo in Qatar sapeva – o avrebbe dovuto sapere – dei rischi intrinseci nell’ospitare il torneo lì, a causa della forte dipendenza del paese dai lavoratori migranti e del grave sfruttamento che essi devono affrontare.
La FIFA ha la chiara responsabilità di agire quando i lavoratori dei progetti connessi allo svolgimento della Coppa del Mondo sono a rischio di sfruttamento sul lavoro e deve usare la sua influenza per sollecitare il Qatar a proteggere adeguatamente tutti i lavoratori migranti. Sebbene siano stati compiuti progressi sui diritti dei lavoratori, gli abusi in corso mostrano che Qatar e FIFA devono fare molto di più affinché la Coppa del Mondo lasci un’eredità positiva.
Firma ora la petizione e invita la FIFA a denunciare gli sfruttamenti sul lavoro.
Insieme, possiamo rendere “Qatar 2022” un punto di svolta per i lavoratori migranti.
Dei 18 certificati di morte esaminati da Amnesty International, 15 non hanno fornito informazioni sulle cause alla base del decesso limitandosi a espressioni quali “grave crisi cardiaca originata da cause naturali”, “non precisata crisi cardiaca” o “acuta crisi respiratoria originata da cause naturali”.
Simili frasi sono state usate anche nei documenti relativi a 35 decessi per “motivi non collegati al lavoro” avvenuti dal 2015 all’interno degli impianti e delle infrastrutture dei mondiali di calcio del 2022.
Da un’analisi dei dati sui decessi eseguita da Amnesty International su molteplici fonti, è arrivata la conferma che la maggior parte delle morti di lavoratori migranti rimane senza spiegazione. Le statistiche ufficiali del Qatar mostrano che dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 stranieri di ogni età e occupazione ma che le cause del decesso sono inattendibili.
Il fatto che un’elevata percentuale di decessi sia attribuita a “disturbi cardiovascolari” rischia di oscurare l’altro fatto che un gran numero di decessi resta senza spiegazione. Questo è quanto indicano anche i dati provenienti dagli stati dell’Asia meridionale, dai quali arriva la maggioranza dei lavoratori in Qatar.
Ad esempio, i dati ufficiali del Bangladesh mostrano che nel 71 per cento dei casi di connazionali morti in Qatar tra novembre 2016 e ottobre 2020 il decesso è stato attribuito a “cause naturali”.
Un’indagine del “Guardian” ha rivelato che, nel 69 per cento dei casi di lavoratori provenienti da India, Nepal e Bangladesh tra il 2010 e il 2020, il decesso è stato attribuito a “cause naturali”.
I sei lavoratori migranti deceduti – quattro operai, una guardia di sicurezza e un camionista provenienti da Nepal e Bangladesh – le cui storie Amnesty International ha esaminato in dettaglio godevano di ottima salute e avevano superato gli esami medici obbligatori prima di partire per il Qatar. Nessuna delle loro famiglie ha ricevuto un risarcimento.
Manjur Kha Pathan, 40 anni, era alla guida del camion per 12-13 ore al giorno. Si era lamentato perché l’impianto di aria condizionata non funzionava più. Il 9 febbraio 2021 si è sentito male nel suo alloggio ed è morto prima che arrivasse l’ambulanza.
Sujan Miah, 32 anni, era un tubista impegnato in un progetto nel deserto. È stato trovato morto nel suo letto la mattina del 24 settembre 2020. Nei quattro giorni precedenti la temperatura aveva superato i 40 gradi.
Tul Bahadur Gharti, operaio edile, è morto nel sonno il 28 maggio 2020 dopo aver lavorato per circa dieci ore con una temperatura che aveva raggiunto i 39 gradi.
Suman Miah, 34 anni, operaio edile, è morto il 29 aprile 2020 dopo un lungo turno di lavoro con una temperatura di 38 gradi. Il governo del Bangladesh ha offerto alla famiglia un risarcimento equivalente a circa 3000 euro, che però sono stati destinati a ripagare debiti contratti con i procacciatori di lavoro in Qatar.
Yam Bahadur Rana, guardia di sicurezza in un aeroporto, un lavoro che lo obbligava a rimanere seduto per lunghe ore sotto il sole, è morto sul lavoro il 22 febbraio 2020.
Mohammad Koachan Khan, 34 anni, intonacatore, è stato trovato morto nel suo letto il 15 novembre 2017. Anche la sua famiglia ha ottenuto assistenza dal governo del Bangladesh ma anche in questo caso la somma ricevuta è stata usata per ripagare i debiti pregressi.
Uno dei principali rischi per la salute dei lavoratori migranti in Qatar, ampiamente documentato quanto prevedibile, è dato dall’esposizione a temperature estreme e a tassi elevati di umidità.
Nel 2019 il governo del Qatar ha commissionato uno studio al laboratorio greco FAME, dal quale è emerso che i lavoratori che avevano solo le protezioni minime previste dalla legge rischiavano assai di più di avere un colpo di calore rispetto a un gruppo di lavoratori impiegati nei progetti per i mondiali di calcio del 2022, che hanno normalmente standard più alti di protezione.
Sempre nel 2019 uno studio condotto dalla rivista “Cardiology” ha trovato una correlazione tra caldo e decessi di lavoratori nepalesi in Qatar e ha concluso che “almeno 200 dei 571 decessi per problemi cardiovascolari dal 2009 al 2017 avrebbero potuto essere evitati”.
Fino a poco tempo fa la principale protezione contro i colpi di calore era il divieto di lavorare all’esterno in determinati orari, tra il 15 giugno e il 31 agosto. Nel maggio 2021, l’inizio del periodo è stato anticipato al 1° giugno e sono state introdotte due nuove misure: il divieto di lavorare all’esterno quando l’indice che misura caldo e umidità supera una determinata quota e il diritto dei lavoratori di fermarsi e presentare un reclamo al ministero per lo Sviluppo amministrativo e gli Affari sociali se temono un colpo di calore.
Manca tuttavia ancora una misura fondamentale: periodi di riposo proporzionali alle condizioni climatiche e alla natura del lavoro. Il diritto dei lavoratori ad “autogestire” i ritmi di lavoro nella stagione calda, a causa dei rapporti di lavoro estremamente iniqui non risulta particolarmente utile.