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di Francesco Vignarca
È la notte dell’8 ottobre 2016 nel villaggio di Deir Al-Hajari, appartenente al governatorato di Al Hudaydah nello Yemen nord-occidentale.
Quattro famiglie dormono in altrettante case, tutte vicine perché abitate da parenti. Ma un sibilo e un boato squarciano il silenzio notturno. “Mi sono svegliata alle tre del mattino con i suoni dei bombardamenti aerei, quindi siamo corsi fuori di casa verso nord e poi abbiamo sentito il secondo colpo della bomba proveniente dall’alto; il fuoco di questa esplosione era così vicino che ci stava bruciando. Dopo quasi due minuti il terzo missile ha raggiunto casa di mio fratello e il quarto casa nostra. Non posso credere che mio cugino e la sua famiglia siano morti, avremmo potuto essere noi a morire se non fossimo fuggiti”. È la dichiarazione, raccolta dagli attivisti della Ong per i diritti umani Mwatana, di una donna di 25 anni, testimone oculare e familiare degli uccisi.
Perché quella notte, in un attacco molto probabilmente sferrato dalla Coalizione militare guidata dai sauditi, è rimasta uccisa una famiglia di sei persone, tra cui una madre incinta e i suoi
quattro figli.
“Ero addormentato, quindi mi sono svegliato al suono del bombardamento aereo; non riuscivo a vedere nulla a causa della polvere e dell’oscurità, le ragazze mi hanno trascinato fuori e avevamo appena iniziato a correre quando è avvenuto il secondo bombardamento”, ha aggiunto un altro abitante delle case vicine scampato alla morte solo grazie alla velocità della fuga da un attacco evidentemente intenzionale (sono state colpite solo le case) su un obiettivo civile (il più vicino checkpoint militare è a oltre 300 metri ma le bombe “guidate” utilizzate hanno un margine di errore di meno di 10 metri).
Questo caso ha fornito la motivazione per una denuncia penale presentata a metà aprile 2018 da Rete Italiana per il Disarmo, la già citata Mwatana e la Ong tedesca per i diritti umani Ecchr, per responsabilità penale nei confronti dei dirigenti di Rwm Italia S.p.A. e dei funzionari governativi italiani per l’esportazione verso l’Arabia Saudita, o verso un altro stato membro della Coalizione militare a guida saudita, di almeno un componente dell’arma letale utilizzata nell’attacco. Perché le prove raccolte (oltre alle testimonianze ci sono resti di bomba con codici inequivocabili) dimostrano che gli ordigni utilizzati dalla Coalizione nell’attacco dell’ottobre 2016 erano di fabbricazione italiana.