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Con l’approvazione dei decreti sicurezza, la vita delle persone che affrontano pericolosi viaggi dalla Libia e da altri luoghi di partenza per raggiungere l’Italia è sempre più in pericolo.
La strategia complessiva opera su due fronti: quello esterno, con il “contrasto all’immigrazione illegale” che passa attraverso la politica “dei porti chiusi”, e quello interno, con la stretta sul sistema di accoglienza e sulle forme di protezione.
Di fatto, meno arrivi e meno diritti per chi arriva, privilegiando logiche securitarie a scapito della tutela dei diritti di migranti e rifugiati e del rispetto delle convenzioni internazionali sul soccorso in mare e accrescendo il rischio di esclusione sociale ed emarginazione sul territorio nazionale.
Il decreto sicurezza-bis interviene, così come il primo, su aspetti eterogenei. In particolare, sul “contrasto all’immigrazione illegale” opera tre importanti modifiche. In primo luogo, affida anche al Ministero dell’interno (prima solo il Ministero dei Trasporti), d’accordo con quelli della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, e informando il Presidente del Consiglio dei ministri, il compito di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale.
Inoltre, amplia il ventaglio delle ragioni che possono vietare l’accesso a un porto al contrasto del fenomeno dell’immigrazione via mare.
Questo significa che possono tuttora essere effettuati – nei fatti – dei veri e propri respingimenti in mare di persone in cerca di aiuto impedendo l’accesso di migranti e rifugiati alle procedure propedeutiche alla richiesta di protezione internazionale.
Infine, le modifiche hanno ricadute sulle attività di ricerca e soccorso in mare (Sar) tali da ostacolarle e rappresentano, inoltre, un disincentivo allo svolgimento delle stesse.
Le sanzioni amministrative pecuniarie, fino a 1 milione di euro, e la confisca dell’imbarcazione ne sono due chiari esempi.
Il decreto inoltre prevede strumenti a supporto dei rimpatri: un fondo che potrebbe finanziare anche paesi non sicuri; violando di fatto il principio di non refoulement.
Tra il 1° gennaio e il 27 ottobre di quest’anno, le Ong hanno operato in mare solo per 85 giorni (mai più di due per volta), mentre per gli altri 225 giorni i salvataggi sono stati compiuti solo da unità della cosiddetta guardia costiera libica.
Negli 85 giorni in cui erano presenti le Ong in zona Sar, non ci sono state più partenze rispetto ai 225 giorni in cui c’erano solo le motovedette libiche. E con tutta evidenza i giorni con più partenze sono stati quelli di bel tempo o ad aprile in coincidenza con gli attacchi del generale Haftar.
La riduzione degli assetti di ricerca e soccorso nel Mediterraneo in seguito al taglio delle navi della missione Sophia e alle restrizioni imposte alle Ong contribuiscono a peggiorare ulteriormente le cose e a rendere il Mediterraneo un mare sempre più pericoloso.
Secondo i dati diffusi dall’UNHCR, nel 2019 si stimano 637 persone morte in mare nel tentativo di fare la traversata Libia-Italia; 1.041 complessivamente le vittime nel Mediterraneo.
Secondo i dati raccolti dal ricercatore dell’Ispi Matteo Villa nell’ultimo anno il tasso di mortalità lungo la rotta del Mediterraneo centrale è triplicato: il rischio di morire lungo la traversata è passato dal 2-2,4 per cento del periodo 2014-maggio 2018 al 6,2 per cento del periodo giugno 2018-giugno 2019.
Fino al maggio del 2018 moriva una persona ogni 45 di quelle che partivano, mentre nell’ultimo anno muore una persona ogni 14 di quelle che partono dalla Libia. Inoltre il 60 per cento di chi parte è riportato in Libia.
A questi numeri si devono aggiungere, purtroppo, le vittime di un ultimo naufragio registrato il 20 novembre al largo della Libia: i morti potrebbero essere 67, se non di più, secondo Alarm Phone.