Asia: ‘Stop alla pena di morte e ai processi iniqui’

5 Dicembre 2011

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Un gruppo di irriducibili paesi asiatici sta sfidando la crescente tendenza mondiale contro la pena di morte e condanna alla pena capitale migliaia di persone ogni anno al termine di processi iniqui.

Lo ha reso noto oggi la Rete asiatica contro la pena di morte (Adpan), che in un rapporto dal titolo ‘Quando manca la giustizia. Migliaia messi a morte dopo processi iniqui‘ denuncia come 14 paesi asiatici messi insieme eseguano più condanne a morte del resto dei paesi del mondo e descrive gli sforzi in atto per garantire processi equi in otto di quei paesi.

Solo un piccolo numero di paesi in Asia ricorre ancora alla pena di morte ma questo fatto getta un’ombra sull’intero continente: date le numerose condanne alla pena capitale inflitte al termine di processi iniqui, innocenti vengono messi a morte‘ – ha dichiarato Louise Vischer, coordinatrice dell’Adpan.

Il rapporto sollecita un’azione in favore di otto persone che rischiano l’esecuzione in Cina, Giappone, India, Indonesia, Malesia, Pakistan, Singapore e Taiwan. In ciascuno di questi casi, la condanna a morte è stata inflitta dopo un processo iniquo e in sei su otto l’accusa si è basata su prove estorte mediante tortura.

Le falle presenti nei sistemi giudiziari di molti di questi paesi creano una situazione per cui persone vengono messe a morte al termine di processi clamorosamente irregolari, in cui vi è scarso o assente accesso all’assistenza legale e si può essere condannati persino dopo essere stati obbligati a confessare con la tortura‘ – ha sottolineato Catherine Baber, vicedirettrice di Amnesty International per l’Asia e il Pacifico.

Oltre la metà dei paesi asiatici ha abolito la pena capitale o non ha eseguito condanne a morte negli ultimi 10 anni.

Taiwan ha ripreso le esecuzioni nel 2010 dopo una pausa di quattro anni e nonostante nel 2000 avesse annunciato una politica di graduale abolizione. La Thailandia è tornata a eseguire condanne a morte nel 2009, nonostante nel suo piano d’azione sui diritti umani si fosse impegnata per l’abolizione.

Nel gennaio di quest’anno, il ministro della Giustizia di Taiwan ha riconosciuto che Chiang Kuo-ching, un soldato dell’Aviazione, era stato messo a morte nel 1997 per un reato che non aveva commesso, a seguito di una ‘confessione’ estorta mediante tortura.

Solo l’abolizione della pena capitale può garantire che nessun innocente venga messo a morte. Le scuse dei governi per gli ‘errori’ non possono mai essere abbastanza‘ – ha commentato Hsinyi Lin, direttore esecutivo dell’Alleanza taiwanese per la fine della pena di morte.

Chiou Ho-shun è il prigioniero detenuto da più tempo in quello che è il più lungo procedimento giudiziario in corso nella storia di Taiwan. Condannato a morte per omicidio nel 1989, è in carcere da oltre 23 anni. Il suo caso, riesaminato per 11 volte, è stato definito dai suoi avvocati ‘una macchia nella storia penale del paese’.

Chiou Ho-shun continua a sostenere di aver reso una falsa confessione sotto tortura. L’Alta corte di Taiwan ha riconosciuto che il detenuto ha subito violenza ma si è limitata a non considerare come prova la registrazione audio delle confessioni in cui si potevano distintamente udire le urla del prigioniero. Dopo continui rimpalli tra l’Alta corte e la Corte suprema, Chiou Ho-shun ha perso l’ultimo appello presso la Corte suprema nell’agosto 2011 e potrebbe essere messo a morte in qualsiasi momento.

Confessioni estorte con la forza vengono regolarmente considerate come prove affidabili nei processi in Afghanistan, Cina, Giappone, India e Indonesia, nonostante le leggi vietino tale prassi.

In India, Devender Pal Singh, un prigioniero nel braccio della morte, ha denunciato alla Corte suprema che gli addetti agli interrogatori avevano minacciato di ucciderlo e gli avevano ‘preso la mano’ per fargli ‘firmare dei fogli di carta bianchi’.

Il fatto che una persona possa essere condannata a morte senza uno straccio di prova se non una ‘confessione’ è l’atto finale d’accusa nei confronti del sistema giudiziario di un paese‘ – ha dichiarato Maiko Tagusari, segretaria generale del Centro giapponese per i diritti dei prigionieri.

In Asia, gli imputati per reati per i quali può essere emessa una condanna a morte hanno un limitato, se non addirittura inesistente, accesso alla difesa legale, sia prima che durante il processo.

Il sistema cosiddetto del ‘daiyo kangoku’, in vigore in Giappone, consente alla polizia di trattenere e interrogare un sospetto in assenza di un avvocato per 23 giorni, sulla base dell’assunto che la presenza di un avvocato potrebbe rendere difficile ‘persuadere il sospetto a dire la verità’.

Le autorità cinesi possono frapporre ostacoli ai colloqui tra gli avvocati e i loro clienti o rendere difficile l’accesso ai fascicoli. In alcuni casi, gli avvocati sono stati incriminati per aver presentato in aula prove che contrastavano la tesi della pubblica accusa.

In base al diritto internazionale, la pena di morte può essere imposta solo per reati intenzionali con conseguenze mortali. La pena di morte come punizione automatica è vietata. Ciò nonostante, alcuni paesi asiatici la applicano per reati non letali, come il furto o il traffico di droga.

Corea del Nord, Malesia, Pakistan e Singapore sono tra i paesi il cui sistema legale prevede la pena di morte come pena obbligatoria per il possesso di una determinata quantità droga.

I reati puniti con la pena di morte sono almeno 55 in Cina, 28 in Pakistan e 57 a Taiwan.

Tutti i paesi asiatici devono lavorare insieme in direzione dell’abolizione della pena di morte. Solo allora, potranno dimostrare il loro reale attaccamento all’equità e alla giustizia‘ – ha concluso Narendra, dell’Unione popolare per le libertà civili, organizzazione indiana aderente all’Adpan.

Ulteriori informazioni

La Rete asiatica contro la pena di morte (Anti-Death Penalty Asia Network, Adpan) è una rete indipendente regionale che svolge campagne per abolire la pena capitale nella regione Asia – Pacifico. L’Adpan è indipendente dai governi e da qualsiasi affiliazione politica e religiosa. Tra i suoi aderenti figurano avvocati, Organizzazioni non governative, gruppi della società civile, difensori dei diritti umani e attivisti di 23 paesi. Per ulteriori informazioni: www.adpan.net

FINE DEL COMUNICATO                                                                                             Roma, 6 dicembre 2011

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