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Ebrahim Sharif è uno dei tanti attivisti politici perseguitati per aver preso la parola sin dall’inizio della “primavera araba”, che nel febbraio 2011 ha raggiunto anche il piccolo regno del Bahrein.
Sharif non ha mai usato violenza. Si è limitato, nel corso di varie manifestazioni, a chiedere riforme.
La sua vicenda giudiziaria è simile a tante altre legate alla repressione che la monarchia bahreinita, aiutata anche militarmente dall’Arabia Saudita e protetta politicamente dagli Usa e soprattutto dal Regno Unito, ha imposto contro il dissenso.
Ma ora potrebbe essersi chiusa bene.
Sharif ha trascorso un anno in carcere, dal 12 luglio 2015 all’11 luglio 2016, per “aver incitato all’odio e al disprezzo per il regime” durante una manifestazione nel corso della quale non aveva detto alcunché di violento.
Il 13 novembre Sharif è stato raggiunto dalla medesima incriminazione, questa volta per i contenuti di un’intervista rilasciata all’Associated Press pochi giorni prima della visita in Bahrein del principe Carlo d’Inghilterra. Il 23 novembre l’accusa è stata ritirata.
Nel frattempo, il 17 novembre, Sharif era stato convocato per interrogatori in una sede del Ministero dell’Interno, per spiegare perché avesse incontrato un funzionario dell’ambasciata britannica.
E speriamo che sia terminata qui.
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