Tempo di lettura stimato: 6'
La discriminazione, ampiamente diffusa nel mondo del lavoro, continua a costituire uno dei maggiori ostacoli al ritorno dei rifugiati e dei profughi interni alle proprie case in Bosnia ed Erzegovina. È quanto denuncia Amnesty International in un nuovo rapporto pubblicato oggi, intitolato ‘Porte chiuse: discriminazione etnica nell’impiego in Bosnia Erzegovina’.
‘A dieci anni dalla firma dell’accordo di pace di Dayton, le autorità della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e quelle della Republika Srpska non stanno ponendo rimedio alle violazioni dei diritti umani dei lavoratori’ – si legge nel rapporto, che mette in luce la continua discriminazione praticata nel lavoro, attraverso l’ineguale accesso all’impiego e la mancanza di compensazione o risarcimento per i lavoratori vittime di licenziamento ingiusto.
Tra il 1992 e il 1995, i tre principali gruppi etnici dell’odierna Bosnia ed Erzegovina (musulmani, serbi e croati) combatterono una guerra sanguinosa che provocò decine di migliaia di morti e costrinse alla fuga milioni di persone. In quel periodo, decine di migliaia di lavoratori vennero discriminati e ingiustamente licenziati per motivi etnici. Questo fu, in molti casi, il primo passo delle campagne di ‘pulizia etnica’, cui seguirono uccisioni, espulsioni forzate e deportazioni.
L’accordo di Dayton, in particolare l’allegato 7 relativo ai rifugiati e agli sfollati, riconosce espressamente il diritto al ritorno, sia come rimedio alle violazioni dei diritti umani causate da trasferimenti e deportazioni illegali, sia come modo per rovesciare gli effetti della ‘pulizia etnica’ dei territori colpiti dal conflitto. Negli ultimi dieci anni, circa la metà dei due milioni di sfollati sono rientrati nelle loro case.
Tuttavia, denuncia Amnesty International, ‘quando tornano, i rifugiati appartenenti alle minoranze etniche devono spesso fronteggiare una persistente ed endemica discriminazione nell’accesso all’impiego. Senza un lavoro, molti di essi non sono in grado di raggiungere o mantenere un adeguato standard di vita. Di fronte al rischio dell’indigenza, decidono di tornare a vivere nei luoghi in cui avevano trovato riparo e lavoro oppure di emigrare’.
Il diritto alla libertà dalla discriminazione, che comprende il pieno godimento del diritto al lavoro, è sancito da numerosi standard e trattati internazionali sui diritti umani di cui la Bosnia ed Erzegovina è Stato parte. La legislazione della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e della Republika Sprska proibisce la discriminazione nell’impiego e prevede forme di risarcimento a favore delle vittime di licenziamenti discriminatori. Tuttavia, queste disposizioni sono insufficienti e non si applicano nei confronti di tutti i lavoratori che hanno perso l’impiego a causa della discriminazione. I risarcimenti, se e quando ottenuti, sono ampiamente inadeguati e giudicati ‘simbolici’. Inoltre, i meccanismi per valutare le richieste di risarcimento non esistono affatto o sono troppo limitati. La grande maggioranza dei reclami rimane inevasa.
Nei casi in cui abbiano ingiustamente perso l’impiego nelle per motivi etnici nelle imprese statali, le autorità non hanno rispettato il principio di non discriminazione nel godimento del diritto al lavoro. Quando i licenziamenti sono avvenuti nel settore privato, ugualmente lo Stato non ha protetto i lavoratori. In entrambi i casi, i essi hanno diritto a una piena riparazione per le violazioni dei diritti umani che hanno subito.
Il rapporto di Amnesty International descrive due casi emblematici:
La fabbrica di alluminio di Mostar, nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Era la più grande impresa statale della Jugoslavia. Durante e dopo la guerra, gli operai non croati furono ingiustamente licenziati. In una città già divisa, la fabbrica perseguì una politica di discriminazione etnica, i cui effetti continuano a essere avvertiti e che in parte viene praticata ancora oggi. Una fabbrica che in precedenza aveva una forza lavoro composta da tutte e tre le principali comunità, ha oggi manodopera quasi esclusivamente croata.
Le miniere di ferro Ljublija, nei pressi di Prijedor, nella Republika Srpska, già di proprietà statale. All’inizio della guerra, caddero sotto il controllo delle autorità serbo bosniache locali. La nuova direzione operò una sistematica discriminazione nei confronti di almeno 2000 lavoratori non serbi, ordinando licenziamenti in massa per meri motivi etnici. Migliaia di croati e di musulmani della zona, compresi gli ex lavoratori, furono portati a Omarska, il famigerato campo di detenzione situato all’interno del complesso minerario, in cui vennero compiute torture e uccisioni di massa. I lavoratori delle miniere ingiustamente licenziati non sono stati reintegrati e non hanno ricevuto alcun’altra forma di riparazione. Nel 2004 la compagnia internazionale LNM Holdings (che ora è stata assorbita da Mittal Steel) ha siglato un accordo in joint-venture per l’apertura di una nuova impresa, Nuove miniere Ljublija, il 51% della quale è posseduto da investitori stranieri.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 26 gennaio 2006
Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia – Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 – cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it