Narrare è scegliere: che parole usare, cosa mettere in luce, cosa lasciare in ombra. Decidere di cosa parlare e come farlo definisce una chiave interpretativa sul mondo in cui si agisce, dà o meno protagonismo ad alcuni temi e gruppi sociali, delinea prospettive di comprensione rispetto a fenomeni precisi. Pensare a cosa raccontare e come farlo può diventare una scelta escludente e stigmatizzante – come nel caso dei linguaggi di odio – o inclusiva e di empowerment.
Sui discorsi di odio si sa già molto, grazie al continuo affinamento di ricerche e metodi di analisi e alla sempre più cospicua letteratura disponibile sull’argomento. Tuttavia, più i dati vengono raccolti, più si possono individuare non solo tendenze riguardo ai picchi, ai produttori e ai diffusori d’odio, e alle tipologie di “vittime”: è anche possibile osservare schemi di sviluppo e propagazione che ci permettono di ragionare sulle risposte da mettere in campo. Una di queste è proprio scegliere altri punti di vista, altri sguardi, altre parole: perché è possibile raccontare un mondo di e in movimento, utilizzando prospettive dinamiche e flessibili proprio come la società in cui viviamo, dando valore a narrazioni plurali, intersezionali, antirazziste.
Ecco perché abbiamo scelto di parlare di paure, leadership diffusa, auto narrazione e accoglienza al campo di Camini e Riace. Continuano ad esistere infatti realtà di accoglienza resilienti, che vogliamo sostenere attraverso la nostra presenza e attraverso il lavoro congiunto per la difesa dei diritti umani. Il campo a Camini e Riace rappresenta un’opportunità di immersione in una di queste realtà, un’occasione di incontro e confronto con i suoi protagonisti, per mettersi in prima persona al centro della narrazione di una storia impreziosita dalla presenza di testimoni, esperti e formatori.