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La Corte Europea dei diritti umani (Cedu) ha accolto il ricorso presentato a novembre 2020 dai legali della famiglia di Giuseppe Uva, 43enne deceduto il 14 giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri con l’amico Alberto Bigioggero ed essere stato sottoposto a TSO nella caserma della città.
Tredici anni dopo la morte di Uva, permane ancora totale impunità per una morte avvenuta a seguito di una custodia prolungata nelle mani di agenti dello Stato. Infatti, dopo l’assoluzione dei sei poliziotti e due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale in primo e secondo grado, la Corte di Cassazione aveva emesso la sua sentenza definitiva nel luglio 2019, confermando la non colpevolezza di tutti gli imputati.
Nel corso delle complesse vicende processuali sul caso, Amnesty International aveva espresso a più riprese preoccupazioni sull’andamento delle indagini e la loro non conformità rispetto agli obblighi di efficacia, indipendenza, tempestività e completezza che gli standard internazionali.
“Il riconoscimento dell’ammissibilità del ricorso per il caso Uva da parte della Corte di Strasburgo è un passo importante per poter accertare la verità rispetto ad una delle tante pagine nere della storia giudiziaria italiana, simbolica di quanto al nostro ordinamento manchino ancora gli strumenti adeguati a prevenire morti in custodia, maltrattamenti e tortura da parte delle forze di polizia e a investigarli in maniera efficace”, ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
Secondo l’associazione A Buon diritto, che ha supportato il team legale nella presentazione dell’istanza, sono quattro i principali motivi che hanno spinto la Cedu a recepire il ricorso: 1. Uva è stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e comunque a maltrattamenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani; 2. Lo Stato italiano non si è adoperato a sufficienza per accertare i fatti, perché la lunghezza del processo e l’imperizia delle indagini non avrebbero consentito il raggiungimento della verità, neanche se essa fosse stata a portata di mano; 3. Il legislatore italiano ha introdotto nell’ordinamento il reato di tortura solo nel 2017, dopo quasi trent’anni dalla firma della Convenzione Onu contro la tortura: e senza questo colpevole ritardo, l’autorità giudiziaria avrebbe potuto disporre di strumenti più appropriati e incisivi per la valutazione dei possibili comportamenti delittuosi; 4. Nel secondo grado del processo, a carico degli appartenenti alle forze di polizia, ci si è limitati ai verbali del primo grado senza che i testimoni venissero nuovamente ascoltati, in violazione di una precisa disposizione della stessa Cedu.
La Corte europea era già intervenuta in passato su vicende giudiziarie nazionali, condannando l’Italia per la violazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, come nel caso dei gravi fatti avvenuti nel corso del G8 di Genova del 2001, di cui ricorre quest’anno il ventesimo anniversario.
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