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All’indomani delle nove esecuzioni di cui si è avuta notizia il 9 novembre, Amnesty International ha sollecitato le autorità cinesi a garantire che tutte le persone accusate di aver commesso crimini durante i disordini di luglio nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang ricevano un processo equo e non siano condannate alla pena capitale.
Secondo il quotidiano China Daily le autorità hanno annunciato l’avvio di un’azione giudiziaria nei confronti di altre 20 persone per reati che vanno dall’uccisione all’incendio, alla rapina e collegati ai disordini di luglio.
I nove uomini messi a morte, otto uiguri e un cinese di etnia han, facevano parte di un gruppo più ampio di 21 persone condannate a ottobre. Per tre è stata prevista la sospensione della sentenza capitale, mentre i restanti nove sono stati condannati a lunghi periodi di detenzione. I processi sono durati meno di un giorno e le sentenze sono state confermate dall’Alta corte del popolo dello Xinjiang.
Amnesty International ritiene che le dichiarazioni rese da funzionari cinesi in seguito ai disordini siano il vero ostacolo alla celebrazione di processi equi. Il segretario del Partito comunista di Urumqi aveva affermato a luglio che ‘i brutali criminali saranno condannati a morte’.
Agli imputati è stato negato un rappresentante legale liberamente scelto, mentre le autorità giudiziarie di Pechino facevano pressioni sugli avvocati per i diritti umani affinché non si occupassero dei casi relativi agli scontri nello Xinjiang.
Amnesty International è fortemente preoccupata per la mancanza di apertura e trasparenza relativa ai processi. Non vengono trasmesse notizie sui processi e non sono presenti osservatori.
‘Considerato l’elevato numero di arresti riportato dalle autorità cinesi in relazione ai disordini, dovrebbero aver luogo almeno una decina di processi, che potrebbero concludersi con un numero maggiori di esecuzioni. Il governo cinese deve assicurare che i processi siano condotti in linea con gli standard internazionali, con trasparenza e senza ricorrere alla pena di morte‘ – ha dichiarato Roseann Rife, vicedirettrice del Programma Asia e Pacifico di Amnesty International.
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