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Cina, in un nuovo rapporto di Amnesty International i genitori dei minori uiguri scomparsi raccontano l’orrore della separazione familiare
In un nuovo rapporto pubblicato oggi, Amnesty International ha raccolto gli strazianti racconti dei familiari, in esilio, dei minori uiguri che vengono tenuti in “orfanotrofi” statali nella regione cinese dello Xinjiang.
L’organizzazione ha parlato con genitori che sono stati completamente separati dai propri figli, alcuni di soli cinque anni, e non possono fare rientro in Cina per il timore di essere mandati in campi di internamento di “rieducazione”.
“La spietata campagna cinese di detenzioni di massa nella regione dello Xinjiang ha messo le famiglie separate in una situazione senza via d’uscita: ai minori non è consentito partire, ma i loro genitori si troverebbero ad affrontare persecuzioni e detenzioni arbitrarie se tentassero di ritornare nel proprio paese per occuparsi di loro”, ha dichiarato Alkan Akad, ricercatore di Amnesty International sulla Cina.
“Le strazianti testimonianze dei genitori con cui abbiamo parlato danno una visione solo parziale delle sofferenze subite dalle famiglie uigure separate dai propri figli. Il governo cinese deve mettere fine alle sue spietate politiche nella regione dello Xinjiang e garantire che le famiglie possano ricongiungersi quanto prima senza temere di essere mandate in un campo di repressione”, ha proseguito Alkan Akad.
Amnesty International ha intervistato sei famiglie uigure in esilio che risiedono attualmente in Australia, Canada, Italia, Paesi Bassi e Turchia. Le famiglie, che hanno lasciato la Cina prima dell’intensificarsi della repressione nei confronti di uiguri e altri gruppi di minoranze musulmane nel 2017, non immaginavano neanche lontanamente che ai loro figli sarebbe stato vietato raggiungerle.
È stato calcolato che dal 2017 oltre un milione e mezzo di persone sono state arbitrariamente detenute nei cosiddetti centri di “trasformazione attraverso l’educazione” o di “formazione professionale” nella regione dello Xinjiang, dove hanno subito varie forme di tortura e maltrattamento, tra cui l’indottrinamento politico e l’assimilazione culturale forzata.
“Gli uiguri che si trovano in paesi esteri non parlano volentieri pubblicamente delle violazioni dei diritti umani nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie per paura di ripercussioni nei confronti dei familiari che si trovano in Cina. Nonostante queste difficoltà, questi genitori hanno deciso di condividere pubblicamente le loro storie nella speranza che ciò li possa aiutare a ricongiungersi presto con i propri figli”, ha dichiarato Alkan Akad.
Minori in un viaggio pericoloso nel tentativo di raggiungere l’Italia
Mihriban Kader e Ablikim Memtinin, genitori di quattro figli, sono fuggiti dalla regione dello Xinjiang per raggiungere l’Italia nel 2016 dopo essere stati perseguitati dalla polizia e aver subito pressioni per cedere i propri passaporti.
Hanno lasciato temporaneamente i quattro bambini affidati ai nonni, ma poco dopo la nonna è stata chiusa in un campo, mentre il nonno è stato interrogato dalla polizia.
“Gli altri familiari non se la sono sentita di badare ai miei bambini dopo quello che era successo ai miei genitori”, ha detto Mihriban ad Amnesty International. “Temevano di finire nei campi anche loro”.
I tre figli più piccoli sono stati mandati in un “campo orfani”: strutture create nella regione dello Xinjiang per ospitare, e indottrinare, i minori i cui genitori vengono tenuti in campi di internamento, prigioni e altri centri di detenzione. Il più grande è stato messo in un collegio sottoposto a sorveglianza e controllo.
Mihriban e Ablikim non sono riusciti a mettersi in contatto con loro dall’Italia, ma nel mese di novembre del 2019 hanno ricevuto un permesso dal governo italiano per ricongiungersi con i propri figli.
I quattro minori, che hanno tra i 12 e i 16 anni, hanno viaggiato da soli attraverso la Cina per raggiungere il consolato italiano a Shanghai, ma sono stati fermati dalla polizia e rimandati all’orfanotrofio e al collegio.
“Adesso, i miei figli si trovano nelle mani del governo cinese e non sono sicura se li rivedrò mai più in tutta la mia vita”, ha detto Mihriban. “Ciò che fa più male è che è come se per i miei figli i loro genitori non esistessero più, come se fossimo morti e fossero rimasti orfani”.
Omer e Meryem Faruh, invece, sono scappati in Turchia alla fine del 2016 dopo che la polizia aveva richiesto loro di consegnare i passaporti. Hanno lasciato le due bambine più piccole, dell’età di cinque e sei anni, con i nonni perché non avevano ancora i documenti utili per farle viaggiare. Poi, Omer e Meryem hanno scoperto che i loro familiari erano stati portati nei campi e da allora non hanno notizie delle figlie.
“Non sentiamo le voci delle nostre bambine da 1594 giorni”, ha detto Omer ad Amnesty International. “Io e mia moglie piangiamo solo di notte, cercando di nascondere la nostra sofferenza agli altri ragazzi che sono qui con noi”.
È fondamentale l’accesso agli osservatori sui diritti umani
“La tragedia della separazione familiare nella regione dello Xinjiang mette in luce la crudeltà degli sforzi della Cina di controllare e indottrinare gli uiguri e altri gruppi etnici musulmani in nome del ‘controterrorismo’”, ha commentato Alkan Akad.
“La Cina deve mettere fine alle misure che limitano i diritti di tutte le minoranze musulmane di lasciare il paese e farvi rientro liberamente. Deve chiudere tutti i ‘campi di rieducazione’ politica e rilasciare i detenuti immediatamente, incondizionatamente e senza alcun pregiudizio”, ha concluso Alkan Akad.
Amnesty International chiede al governo cinese di dare libero e pieno accesso alla regione dello Xinjiang agli esperti Onu sui diritti umani, a ricercatori indipendenti e giornalisti per svolgere delle indagini su quello che sta accadendo nella regione.
Intanto, l’organizzazione chiede agli altri governi di fare tutto il possibile per assicurare che uiguri, kazaki e appartenenti ad altre minoranze etniche cinesi residenti nei propri paesi ricevano l’assistenza necessaria nei loro tentativi di localizzare, mettersi in contatto e ricongiungersi con i propri figli.