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In un nuovo rapporto pubblicato oggi, Amnesty International ha accusato le autorità iraniane di aver fatto ricorso a una macabra forma di propaganda per degradare i condannati a morte agli occhi dell’opinione pubblica e aver deviato l’attenzione dai processi irregolari culminati nelle sentenze capitali ai loro danni.
Come si legge nel rapporto “Mandare in onda l’ingiustizia per esaltare uccisioni di massa”, il 2 agosto 2016 sono stati messi a morte 25 uomini accusati di appartenenza a un gruppo armato. Subito dopo, le autorità iraniane hanno avviato una massiccia campagna di comunicazione facendo trasmettere dai mezzi d’informazione sotto il loro controllo tutta una serie di video contenenti “confessioni” forzate degli imputati, allo scopo di giustificarne l’esecuzione.
I 25 uomini, tutti sunniti, messi a morte il 2 agosto 2016 facevano parte di un più ampio gruppo di prigionieri arrestati tra il 2009 e il 2011 nella provincia del Kurdistan, all’epoca teatro di scontri armati e di omicidi. Molti di loro, tra cui Barzan Nasrollahzadeh – minorenne al momento dell’arresto – si trovano ancora nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione.
“Esibendo i condannati a morte in televisione, le autorità iraniane hanno cercato di convincere l’opinione pubblica della loro colpevolezza e di nascondere il fatto che essi erano stati giudicati colpevoli di reati definiti in modo del tutto vago e generico e al termine di processi gravemente irregolari” – ha dichiarato Philip Luther, direttore per la ricerca e l’advocacy del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
“Le autorità iraniane hanno il dovere di portare di fronte alla giustizia chi porta a termine attacchi mortali contro i civili. Ma ottenere ‘confessioni’ con la tortura e poi mandarle in onda non è mai giustificabile. Si tratta di una grave violazione dei diritti dei prigionieri ai quali, così come alle loro famiglie, viene tolta ogni dignità” – ha aggiunto Luther.
Le confessioni erano precedute da titoli sensazionalistici come “Nelle mani del diavolo” o “Nel profondo dell’oscurità”, accompagnate da colonne sonore melodrammatiche e in alcuni casi precedute o intervallate da scritte cinematografiche come “prossimamente” o “continua”.
In conversazioni fatte con un telefono cellulare entrato in carcere di nascosto e poi pubblicate online, molti dei 25 prigionieri dicono di essere stati costretti a rilasciare “confessioni” di fronte alle telecamere dopo aver subito mesi di tortura nelle celle d’isolamento dei centri di detenzione del ministero dell’Intelligence. Nelle conversazioni, i prigionieri parlano di calci, pugni, bastonate, frustate, privazione del sonno e diniego di cibo e cure mediche.
“Non avevo alternativa, non ce la facevo più a sopportare altre torture. [I funzionari dell’intelligence] mi hanno messo davanti a una telecamera promettendomi che, se avessi detto quello che loro volevano, il caso sarebbe stato chiuso e sarei stato rilasciato” – sono le parole di Mokhtar Rahimi, uno dei 25 prigionieri poi messi a morte, le cui dichiarazioni sono state usate contro di lui durante il processo.
Un altro prigioniero, Kaveh Sharifi, racconta che ha dovuto imparare a memoria un testo di sei pagine preparato dal ministero dell’Intelligence:
“Ho ripetuto quasi due ore al giorno fino a quando non ho imparato tutto a memoria. Mi hanno persino indicato come muovere le mani e mi hanno detto di mostrare un aspetto sorridente, per non far capire che mi avevano tenuto in isolamento e trattato male”.
Oltre ai video di propaganda, le autorità iraniane hanno diffuso una serie di dichiarazioni in cui i 25 condannati a morte venivano descritti come dei vigliacchi criminali che meritavano la punizione ricevuta. Al pari delle “video-confessioni”, queste dichiarazioni contengono una ricostruzione sommaria dei fatti e attentano alla dignità e alla reputazione dei protagonisti, tra l’altro attribuendo loro responsabilità collettive di azioni criminali senza precisare il coinvolgimento individuale di ognuno.
Nei video compaiono Kaveh Sharifi, Kaveh Veysee, Shahram Ahmadi ed Edris Nemati (messi a morte il 2 agosto) e Loghman Amini, Bashir Shahnazari, Saman Mohammadi e Shouresh Alimoradi, attualmente in un centro di detenzione del ministero dell’Intelligence a Sanandaj, nella provincia del Kurdistan.
Nelle immagini, i condannati si descrivono in modo denigratorio come “terroristi” che meritano di essere puniti; “confessano” di far parte di un gruppo denominato Towhid va Jahad, che ha compiuto attentati e pianificato l’uccisione di “infedeli”. In alcuni video, si paragonano allo Stato islamico e affermano che avrebbero commesso “atrocità peggiori dello Stato islamico” se non li avessero fermati in tempo. Le loro “confessioni” sono intervallate da immagini di azioni atroci dello Stato islamico in Iraq e in Siria, per sfruttare la paura dei cittadini iraniani e giustificare in questo modo le esecuzioni.
I video contengono alcune incongruenze, come se i condannati a morte stessero recitando un copione: in alcuni casi, gli uomini fanno riferimento a fatti accaduti mesi dopo il loro arresto o, da un video all’altro, la descrizione del loro coinvolgimento cambia completamente.
Le “confessioni” mostrano fino a che punto i servizi d’intelligence e le forze di sicurezza dell’Iran abbiano violato il diritto alla presunzione d’innocenza e quello a non essere costretti a rilasciare dichiarazioni auto-incriminanti.
I 25 uomini sono stati condannati per il vago reato di “inimicizia contro Dio”, mediante la “appartenenza a un gruppo salafista sunnita” e la partecipazione ad attentati e omicidi. Nel corso degli anni trascorsi nei bracci della morte, molti di loro hanno ripetutamente negato ogni coinvolgimento.
Amnesty International non è in grado di confermare o smentire le opposte versioni, anche perché i procedimenti giudiziari si sono svolti in segreto. Dalle ricerche dell’organizzazione è emerso comunque che i processi sono stati profondamente iniqui: nel corso delle indagini, gli imputati non hanno avuto diritto a un avvocato e sono stati sottoposti a torture per estorcere “confessioni” poi usate contro di loro.
I video sono stati prodotti e trasmessi da vari mezzi d’informazione controllati dallo stato, tra cui la Islamic Republic of Iran Broadcasting (Irib), Press Tv e un organismo denominato Associazione Habilian. Su questi mezzi d’informazione ricade, dunque, una parte delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani inflitte alle persone rappresentate nelle loro produzioni e ai loro familiari.
A oltre tre mesi di distanza dalle esecuzioni, le autorità iraniane ancora non sono in grado di fornire informazioni sui reati specifici per i quali ciascuna delle 25 persone è stata messa a morte.
“Le autorità iraniane devono sospendere immediatamente la produzione e la messa in onda di ‘confessioni’ estorte coi maltrattamenti e con la tortura e sollevare il velo di segretezza che circonda i procedimenti giudiziari assicurando che le giurie emettano verdetti ponderati e che questi siano resi noti al pubblico” – ha concluso Luther.
Amnesty International continua a chiedere all’Iran di stabilire una moratoria ufficiale sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte.
Dal 1° gennaio al 26 ottobre 2016 in Iran sono state eseguite almeno 457 condanne a morte ma il numero effettivo è probabilmente assai più alto.
Scarica il rapporto “Mandare in onda l’ingiustizia per esaltare uccisioni di massa”