Conflitto tra Israele e i gruppi armati palestinesi di Gaza – novembre 2012

27 Marzo 2013

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Conflitto tra Israele e i gruppi armati palestinesi di Gaza – Dalla missione di ricerca di Amnesty International nel novembre 2012

I bambini continuano a giocare all’aperto, nonostante la pioggia torrenziale. Sono stati chiusi in casa durante otto giorni di bombardamenti israeliani senza sosta, terminati con oltre 160 morti, tra cui più di 30 bambini e decine di altri civili privi di armi.

Per la durata dell’attacco, sono rimasti chiusi tra quattro mura, cercando riparo nelle case dei parenti oppure nelle scuole che l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha reso disponibili come rifugi temporanei per migliaia di famiglie costrette dai bombardamenti ad abbandonare le loro abitazioni.

Non che stare in un ambiente chiuso sia stato necessariamente più sicuro. Molte persone sono morte o sono rimaste ferite nelle loro case o in quelle dei vicini quando sono cadute le bombe.

A Gaza City ho incontrato alcuni membri della famiglia al-Dalu. Pieni di dolore, scavavano tra le macerie della loro casa per trovare i corpi dei parenti uccisi quattro giorni prima da un attacco aereo israeliano. Nessuno di quelli che erano nell’abitazione si è salvato: sono stati uccisi in 12, tra cui 10 membri della famiglia al-Dalu: cinque bambini, quattro donne e il padre di quattro dei bambini.
Il proprietario della casa, un cinquantenne stravolto dal dolore ma dalla voce lieve, mi ha dato la lista delle persone che ha perso per sempre.

‘Mia moglie, Tahani; le mie due figlie, Ranin di 25 anni e Yara di 12; mio figlio Mohamed, 29 anni, sua moglie Samah, di 25 e i loro quattro figli: Sara, sette anni, Jamal, cinque anni, Yousef, quattro anni, Ibrahim, nove mesi: e mia sorella, Suhaila, 75 anni, che viveva su una sedia a rotelle’.
‘Quella mattina ero uscito con mio figlio Abdallah per andare al supermercato, avevamo terminato il cibo. Mia moglie mi ha telefonato chiedendomi di prendere anche dei giocattoli per i bambini, per distrarli dai bombardamenti’.

‘Nelle prime ore del pomeriggio terminata la preghiera, stavo facendo ritorno a casa quando mi è venuto incontro mio figlio in lacrime. I vicini l’avevano chiamato avvertendolo che casa nostra era stata bombardata. Abbiamo corso fino a quando ci siamo trovati di fronte a una pila di macerie’.

‘Non era sopravvissuto nessuno. Ho perso tutto ciò che avevo di più caro. Mia moglie, i miei figli e i miei nipoti, mia sorella paralizzata erano terroristi? Avevano fatto del male a Israele? Voglio che sia fatta giustizia, nient’altro voglio se non giustizia. La Corte penale internazionale dovrebbe fare il suo dovere e processare i responsabili di questi crimini’.

La casa accanto è crollata con quella degli al-Dalu. Una donna di 79 anni e suo nipote sono morti, altri parenti sono rimasti feriti.

Da un’altra parte di Gaza City, Mohammed Abu Zur, 5 anni, e due delle sue zie sono morti e altre 25 persone, tra cui 15 bambini, sono rimasti feriti nel crollo della casa dei vicini, colpita da un bombardamento israeliano. Sono le vittime dei cosiddetti ‘danni collaterali’ causati dagli sconsiderati attacchi lanciati dall’esercito israeliano contro aree densamente popolate.

Sapevano che quasi sicuramente avrebbero ucciso e ferito civili inermi che non stavano prendendo parte al conflitto e avrebbero causato distruzione e danni ben al di là del loro effettivo bersaglio.
Questi casi non sono l’eccezione. Nei pochi giorni che ho trascorso qui a Gaza ho indagato su molti altri casi in cui, nei bombardamenti israeliani dal 14 al 21 novembre, sono stati uccisi e feriti bambini e altri civili privi di armi.

Ancora una volta i civili pagano il prezzo. L’impunità concessa ai responsabili di precedenti attacchi come questi ha senza alcun dubbio contribuito al loro ripetersi in quest’ultima escalation del conflitto.
Ora c’è bisogno di un’inchiesta indipendente per garantire che le vittime non siano private per l’ennesima volta della giustizia e della riparazione.

DONATELLA ROVERA

Donatella Rovera è la consulente principale della ricerca sulle aree di crisi di Amnesty International. Negli ultimi 20 anni ha svolto numerosissime ricerche, soprattutto in Africa del Nord e Medio Oriente.

Ha svolto e diretto missioni di ricerca, tra l’altro, durante la guerra civile dell’Algeria degli anni Novanta, in Israele e nei Territori palestinesi occupati, in Libano durante la guerra del 2006, a Gaza durante la campagna militare israeliana del 2008-2009, in Costa d’Avorio, Sudan e Sud Sudan nel 2011.

È stata in Libia nei primi mesi della rivolta del 2011 e all’inizio del 2012.

Negli ultimi sei mesi ha trascorso molto tempo in Siria, da dove è rientrata tre settimane fa, anche nelle città sotto assedio, investigando direttamente sul campo la situazione dei diritti umani. I suoi rapporti dalla Siria costituiscono la più autorevole fonte d’informazione sui crimini di guerra e contro l’umanità che vengono commessi nel contesto del conflitto interno in corso nel paese.

Parla correntemente arabo, ebraico, inglese, spagnolo, francese e italiano.

Ha frequentato la School of Oriental and African Studies di Londra, l’Università di Alessandria d’Egitto, l’Università ebraica di Gerusalemme.

Era l’alba del 21 novembre quando siamo arrivati in Israele per iniziare la nostra indagine sui razzi partiti da Gaza, che alla fine dell’ultima ondata di violenza ha causato tra gli israeliani sei morti (di cui quattro civili), almeno 40 feriti e oltre 300 ricoverati per lo shock.

In cielo c’erano ancora scie di vapore, lasciate forze dai missili ‘Iron Dome’ usati per intercettare i razzi lanciati dai gruppi armati palestinesi che, stavolta, sono arrivati più a nord, fino a Tel Aviv.

Una delle stanze del nostro appartamento è la mamad, il vano obbligatorio che per legge tutte le nuove costruzioni devono avere: serve come rifugio antiaereo, è privo di cemento e le pareti sono rinforzate.

Dormire in questo ambiente claustrofobico mi ha fatto tornare in mente la costante paura degli attacchi dei razzi con cui gli israeliani convivono da quando, nel 1991, l’Iraq lanciò contro Israele i missili ‘scud’, durante la prima Guerra del golfo.

L’utilità della mamad l’abbiamo verificata quando abbiamo visto le rovine degli ultimi piani di un palazzo di Rishon LeZion, colpito da un razzo partito da Gaza il 20 novembre. Se i suoi abitanti non fossero stati nella mamad, sarebbero rimasti sicuramente uccisi. Ovviamente, gli abitanti di Gaza e molte persone che vivono nelle vecchie costruzioni in Israele non hanno alcun accesso a rifugi del genere.

Kfir Rosen, uno dei feriti nell’attacco del 20 novembre, aveva deciso di non rifugiarsi nella mamad quando iniziarono a suonare le sirene: ‘L’allarme era cessato e non era successo niente, neanche si era mosso l’Iron Dome. Improvvisamente c’è stata una grande esplosione e si è sollevata una cortina di cenere e polvere da sparo che mi ha riempito la gola. Dal piano di sopra sono crollati mattoni: uno ha preso la mia spalla destra e un altro sul lato destro del bacino. Un altro pezzo è rimbalzato su un braccio e un frammento incandescente mi ha bruciato il collo. Ho sceso di corsa le scale e ho visto una distruzione di massa. Il parcheggio era pieno di carcasse di autovetture. Mio fratello a sua volta era rimasto ferito, meno gravemente di me, ma aveva sangue che gli colava dalla testa’.

All’ospedale Soroka, nella città di Be’er Sheva, abbiamo intervistato parecchie persone colpite dagli attacchi indiscriminati coi razzi a partire dal 14 novembre. Nel corso degli otto giorni di conflitto, sono stati oltre 1500.

Un agente di polizia che ha voluto rimanere anonimo ci ha raccontato: ‘Mio figlio, 16 anni, stava giocando a calcio con suo fratello e gli amici. Alle 20 del 20 novembre, la sirena ha suonato. Sono corsi tutti quanti a ripararsi dietro un muro di cemento ma quando il razzo è atterrato, un frammento ha colpito la gamba di mio figlio, penetrando in profondità nei legamenti. Speriamo che guarisca presto e che possa tornare a giocare a calcio, ma c’è ancora il rischio d’infezione. È molto dura, quando sei solito aiutare le altre persone, accendere la radio, sentire che c’è stato un attacco, arrivare sul posto e scoprire che è tuo figlio che è stato colpito’.

Nayyaf al-Ginawi, un palestinese israeliano della città beduina di Lakiya, ci ha detto: ‘Stavo guidando, quando un razzo è atterrato lì vicino, mandando in frantumi il finestrino. Una scheggia mi è entrata nella mano destra. Ora dovrò operarmi’.

In un altro centro sanitario abbiamo incontrato Sima Deutsch, 75 anni. Lei e suo marito, un sopravvissuto all’Olocausto, aiutandosi con un ausilio motorio, avevano lasciato l’appartamento per raggiungere l’area sicura del loro edificio, privo di mamad. Ha inciampato nelle rotelle dell’ausilio ed è caduta in terra, fratturandosi il femore: ‘Così è un inferno. Spero di tornare presto a camminare. Non sono una persona cui piace stare seduta ed è dura non poter far niente. A causa del terrore dei razzi, non potevamo uscire in strada’.

Il numero delle vittime e la dimensione dei danni sono ampiamente inferiori rispetto a Gaza. Ma questi attacchi indiscriminati pongono le vite della popolazione civile sempre a rischio.

Poi c’è stato l’attentato all’autobus di Tel Aviv, il 21 novembre, non rivendicato ma il cui bersaglio erano evidentemente i civili; come gli attacchi indiscriminati coi razzi, si è trattato di una chiara violazione dei diritto internazionale. Amnesty International ha ripetutamente condannato queste azioni.

Tutte le parti coinvolte nel conflitto di Gaza e Israele dovranno porre la protezione dei civili ben in cima alle loro priorità in caso di ripresa delle ostilità. Osservatori internazionali su entrambi i lati potrebbero fare molto per prevenire future violazioni e contribuire all’accertamento delle responsabilità per qualsiasi cosa dovesse accadere.

Ho lasciato Israele con le parole di Yonathan Gher, direttore di Amnesty International Israele: ‘La prima domanda che mi ha fatto il mio piccolo figlio è stata come venivano sparati i razzi verso Tel Aviv, dove viviamo. Facile rispondere. La seconda domanda è stata: ‘perché?’ Anch’io ho una domanda: Perché un bambino di qualunque parte del mondo deve fare una domanda del genere?’

Ann Harrison è la vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International