Cosa rimane di Gaza?

26 Giugno 2025

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Mentre scrivo queste righe un nuovo ordine di evacuazione ha raggiunto la comunità di Khan Yunis: nuova fuga, nuove tende, nuovi bombardamenti. A Gaza le persone stanno morendo di fame, di malattie che potrebbero essere facilmente curate in qualsiasi parte del mondo, ma non in questa striscia di terra lunga appena 41 chilometri.

La crisi alimentare ha un impatto particolarmente devastante sui neonati, sulle madri in allattamento e su quelle in gravidanza. Secondo l’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli aiuti umanitari, il 92 per cento di questi gruppi vulnerabili non raggiunge il minimo necessario del fabbisogno nutrizionale.

Abbiamo intervistato persone che ci hanno raccontato di riuscire a mangiare una volta ogni due giorni e che quello che riescono a recuperare è destinato ai più piccoli. Amal Khayal (trovi la sua storia a pag. 3) ci ha raccontato di aver visto persone impastare il pane con farina macchiata di sangue e sabbia, pur di avere qualcosa da mangiare per i propri figli. Jinan Iskafi, di quattro mesi, è morta il 3 maggio a causa della malnutrizione. Jinan aveva bisogno di latte in polvere senza lattosio, ma non era disponibile a Gaza, oltre ad altri farmaci. “Ero così felice quando è nata, nonostante la guerra. Era un vero piccolo miracolo, ma non ho potuto allattarla, non sono riuscita a proteggerla”. Queste le parole di Aya, la madre di Jinan, che ci ha chiesto di raccontare la sua storia perché il mondo sapesse cosa vuol dire vivere a Gaza oggi.

Il blocco israeliano, durato più di due mesi, ha completamente interrotto la fornitura di aiuti umanitari e altri beni indispensabili alla sopravvivenza dei civili: un’ulteriore prova dell’intento genocida è l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi di Gaza.
La crisi ha avuto un impatto particolarmente devastante sui neonati e sulle madri in gravidanza e in allattamento: secondo l’Ocha, il 92 per cento dei neonati di età compresa tra sei e 23 mesi non soddisfa il proprio fabbisogno nutrizionale. I danni alle infrastrutture idriche prodotti dagli attacchi israeliani hanno ridotto anche la disponibilità dell’acqua. “Mi sveglio con la bocca secca, non riesco neanche a parlare. Per rimediare appena poche bottiglie di acqua potabile, devo mandare mio figlio a fare una fila di ore in un posto lontano da qui. Coi bombardamenti incessanti in corso, non sai mai come andrà a finire. Puoi mandare tuo figlio a prendere l’acqua e può tornarti indietro dentro un sacco per cadaveri. Ogni giorno è così”, ha raccontato una donna al nostro ricercatore.

Come possiamo noi accettare che tutto questo continui a succedere?

L’assedio in corso, che blocca l’ingresso di aiuti salvavita (tra cui cibo, medicinali e carburante) da oltre due mesi, viene utilizzato da Israele come arma di guerra e come forma di punizione collettiva illegale. Si tratta di una palese violazione del diritto internazionale umanitario, che vieta severamente le punizioni collettive e impone a tutte le parti di consentire e facilitare la fornitura imparziale di assistenza umanitaria alla popolazione civile in difficoltà. Ogni tentativo di strumentalizzare gli aiuti umanitari, usarli come mezzo per costringere la popolazione al trasferimento forzato o creare zone discriminatorie di distribuzione degli aiuti, rappresenta una violazione del diritto internazionale e deve essere respinto.

Invece di perseguire politiche che comportano ulteriori sfollamenti forzati e potenzialmente un’annessione illegale, Israele deve porre fine immediatamente al genocidio in corso nella Striscia di Gaza, cessare l’occupazione illegale del territorio palestinese, in conformità con il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del luglio 2024, e smantellare il proprio sistema di apartheid contro la popolazione palestinese.

A cura di Tina Marinari, campaigner

Scarica il n. 3 – Luglio 2025