1. Perché il “decreto sicurezza” peggiora e mette in pericolo le persone migranti presenti in Italia?
  2. Qual è la proposta di Amnesty International? In che modo dovrebbe essere modificato il “decreto sicurezza”?
  3. Amnesty International si schiera contro Salvini e contro i partiti che vogliono più sicurezza in Italia?
  4. Perché Amnesty International vuole che l’Italia sia “invasa” dai migranti?
  5. Perché dovremmo accogliere persone che tolgono lavoro agli italiani?
  6. Come cambia l’accoglienza con il “decreto sicurezza”?
  7. Perché con il “decreto sicurezza” aumenta il numero di persone in stato di irregolarità?
  8. Quali sono i documenti particolari introdotti dal “decreto sicurezza” che hanno sostituito la “protezione umanitaria”?
  9. Che succede alle persone che hanno fatto domanda d’asilo prima dell’entrata in vigore del “decreto sicurezza” ma ancora attendono l’esito di tale richiesta?
  10. E a coloro che sono già in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari cosa accadrà alla scadenza dello stesso?
  11. In che modo il “decreto sicurezza” accresce il rischio di esclusione sociale?
  12. È possibile rimpatriare tutte le persone che non ottengono un regolare permesso di soggiorno?
  13. Cosa stabilisce il “decreto sicurezza-bis”?
  14. Perché non respingiamo i migranti e li rimandiamo da dove sono partiti o nei loro paesi di origine?
  15. Perché Amnesty International è contraria alla politica dei “porti chiusi”? E cosa propone in alternativa, di accoglierli tutti?
  16. Qual è l’effetto concreto di questi cambiamenti sui soccorsi in mare?
  17. In che senso sono “compressi” i diritti di migranti e rifugiati?
  18. Il “decreto sicurezza-bis” prevede strumenti a supporto dei rimpatri?

Perché il “decreto sicurezza” peggiora e mette in pericolo le persone migranti presenti in Italia?

Tra ottobre e novembre 2018, due provvedimenti del governo italiano modificano drasticamente sia la “prima accoglienza” dedicata esclusivamente ai richiedenti protezione internazionale (Decreto del Ministero dell’Interno del 20 novembre 2018); sia la “seconda accoglienza” (“Decreto sicurezza” del 4 ottobre 2018).
L’analisi dettagliata del decreto legge 113/2018 in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica permette di rilevare il processo di infragilimento del richiedente asilo e del beneficiario che lo espone all’emarginazione sociale e ghettizzazione sino ad aumentare le possibilità di farlo precipitare in un esercito di invisibili di riserva facile preda di interessi e organizzazioni criminali (sfruttatori, trafficanti, caporali, padroni e mafiosi). Le misure che escludono i richiedenti asilo dal sistema dell’accoglienza di fatto cancellano la possibilità di costruzione di un percorso inclusivo e socialmente avanzato, mentre l’abolizione della protezione umanitaria priva migliaia di persone, che si vedono rigettare la richiesta di asilo e che non possono essere rimpatriate se non in violazione della legge, di uno status legale che permetterebbe loro l’accesso ai servizi sanitari, sociali e abitativi, istruzione e lavoro, con evidenti ripercussioni negative su qualità di vita, sicurezza e dignità e aumentandone la vulnerabilità e l’esposizione allo sfruttamento lavorativo e criminale.
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Qual è la proposta di Amnesty International? In che modo dovrebbe essere modificato il “decreto sicurezza”?
Chiediamo alle autorità italiane di:

  • modificare il Decreto legge 113/2018 convertito in Legge 132/2018 sulla protezione internazionale, immigrazione e pubblica sicurezza per assicurare a tutte le persone che entrano in Italia l’esercizio reale del diritto fondamentale a chiedere protezione ed accoglienza;
  • stabilire adeguati finanziamenti ai centri di accoglienza, vincolandoli all’elaborazione e fornitura di servizi sociali e di formazione avanzati, professionali e qualificati per consentire l’avvio e la realizzazione di percorsi di inclusione sociale ed economica virtuosi;
  • assicurare che le modifiche al sistema di accoglienza per migranti, richiedenti asilo e titolari di protezione non impatti negativamente sul godimento dei loro diritti. Ogni modifica dovrebbe essere preceduta dalla verifica dell’impatto sui diritti umani;
  • consentire la registrazione anagrafica anche ai richiedenti asilo;
  • rimuovere il riferimento alla nozione di “Paesi di origine sicuri” assicurando la valutazione su base individuale delle domande di asilo;
  • ristabilire servizi professionali nell’ambito della prima e seconda accoglienza allo scopo di fornire percorsi di inclusione sociale ed economica reali e qualificati a tutti i richiedenti asilo e beneficiari.

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Amnesty International si schiera contro Salvini e contro i partiti che vogliono più sicurezza in Italia?
Amnesty International è e rimane politicamente neutrale. Il brief si interroga sugli effetti di due provvedimenti del governo italiano che modificano drasticamente sia la prima che la seconda accoglienza (decreto del ministero dell’Interno del 20 novembre 2018 e “Decreto sicurezza” del 4 ottobre 2018 n. 113) commentando sulle ripercussioni negative su qualità di vita, sicurezza e dignità delle persone coinvolte.
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Perché Amnesty International vuole che l’Italia sia “invasa” dai migranti?
I dati smentiscono la tesi della “invasione” in Italia: dal 1 gennaio al 20 gennaio 2020 sono stati 735* gli arrivi, a fronte di 11.471 persone arrivate nel corso di tutto il 2019 e 23.370 nel 2018. Una diminuzione progressiva rispetto alle 119.369 persone del 2017 e 181.436 del 2016.

Riprendendo il report 2019 della Commissione per gli affari esteri della Camera dei comuni inglese sulla risposta europea all’immigrazione irregolare è utile citare l’analisi che parla di “crisi della politica piuttosto che dei numeri. I paesi europei hanno in gran parte fallito nel condividere la responsabilità dei nuovi arrivi, limitando l’assistenza ai paesi di frontiera come l’Italia, e permettendo la crescita di sentimenti anti migranti in questi paesi“.

* Fonte Ministero degli Interni
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Perché dovremmo accogliere persone che tolgono lavoro agli italiani?
Da un punto di vista economico, i 2,5 milioni di lavoratori stranieri (oltre il 10% del totale) contribuiscono a produrre il 9% circa del PIL nazionale. Si tratta di una presenza particolarmente numerosa in alcuni settori quali l’agricoltura, la ristorazione, i servizi di assistenza o l’edilizia. In un’Italia che invecchia, dunque, non è possibile rinunciare alla forza lavoro migrante, fondamentale in molti settori economici tra cui l’agricoltura, l’edilizia e i lavori di cura agli anziani.
È bene però ricordare che il lavoro dei migranti in Italia è spesso orientato verso forme varie di sfruttamento e descritto con le cinque P: pesante, precario, pericoloso, poco pagato, penalizzato socialmente.
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Come cambia l’accoglienza con il “decreto sicurezza”?
Fino all’entrata in vigore del “decreto Sicurezza”, l’accoglienza era così strutturata: assistenza e soccorso subito dopo l’arrivo nei Centri di primo soccorso e assistenza (Cpsa) e negli hotspot; prima accoglienza e qualificazione nei Centri di prima accoglienza; seconda accoglienza e inclusione nei centri facenti riferimento allo Sprar, Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. In caso di mancanza di posti nei centri di prima e seconda accoglienza, i richiedenti asilo venivano inseriti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), che nella pratica, però, sono diventati centri di prima accoglienza. Il “Decreto sicurezza” ha modificato la prima e la seconda accoglienza, rendendo ordinaria la prima accoglienza all’interno dei CAS centri nati in via del tutto straordinaria, non migliorandone le condizioni iniziali ma peggiorandole. Il sistema di prima accoglienza (dedicata a chi ha fatto domanda di protezione), così come riorganizzato, penalizza i centri piccoli, favorendo le strutture che concentrano un alto numero di richiedenti asilo e penalizza i servizi finalizzati all’inclusione e all’inserimento. Tutto ciò è conseguenza del nuovo sistema di finanziamento dei Centri di accoglienza straordinaria: i nuovi importi fissati per i bandi di gara (i famosi “35 euro”) e l’imposizione dei tagli al personale hanno maggiore impatto negativo sui centri che ospitano un minor numero di persone, in particolar modo, sulle strutture che praticano l’accoglienza diffusa. Le grandi strutture, quindi, diventano più sostenibili rispetto a quelle piccole, nonostante proprio tra queste ultime siano individuabili la maggior parte degli esempi virtuosi di accoglienza. Non solo: le indicazioni provengono direttamente dal ministero dell’Interno, accentuando la visione securitaria (come problema di polizia e ordine pubblico) a scapito di quella socio-umanitaria, mentre – fino al decreto – erano le prefetture a reggere il sistema per mezzo di convenzioni dirette con privati, privato sociale e operatori economici; in questo modo è stato mortificato il lavoro di quelle prefetture che avevano pubblicato bandi di qualità e le buone prassi non sono state valorizzate. Per partecipare ai nuovi bandi per la gestione di un Cas, inoltre, non è più necessario garantire attività finalizzate all’inclusione sociale quali l’insegnamento della lingua italiana, il supporto alla preparazione per l’audizione in Commissione territoriale per la richiesta di asilo, la formazione professionale, la positiva gestione del tempo libero (attività di volontariato, di socializzazione con la comunità ospitante, attività sportive). Anche il supporto alle persone vulnerabili è ridimensionato: non è prevista la figura dello psicologo e diminuiscono le ore minime settimanali di assistenza sociale. Cambia profondamente anche la seconda accoglienza: da Sistema nazionale per la protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar) diventa sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi). Questo significa, innanzitutto, che la seconda accoglienza diventa riservata esclusivamente a coloro che ottengono lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, con un impatto negativo su tutti quei richiedenti asilo che vivono situazioni di particolare vulnerabilità (sanitaria, psicologica, psichiatrica ecc.) e per questo erano inseriti nello Sprar; queste persone, oggi, vedranno prolungata la propria permanenza nei centri di prima accoglienza che, per le ragioni illustrate qualche riga più su, sono sempre meno capaci di offrire sostegno di tipo sociale e psicologico. Non potranno accedere alla seconda accoglienza, inoltre, i titolari della protezione speciale che va ad aggiungersi quale terza forma di protezione al posto di quella umanitaria.
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Perché con il “decreto sicurezza” aumenta il numero di persone in stato di irregolarità?
Il decreto ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari, tipologia di protezione che – fino all’entrata in vigore del decreto – era affiancata allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria, ossia le due forme di protezione internazionale possibili.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, con durata massima di due anni, era una forma di protezione residuale concessa al richiedente sulla base di ragioni diverse e non tassativamente elencate e rispondenti a obblighi costituzionali o internazionali del nostro Stato (che potevano andare, per esempio, da problemi di salute), qualora non sussistessero i requisiti per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Circa due terzi dei paesi europei dispongono di misure analoghe.
La nuova legge ha introdotto, al posto della protezione umanitaria, una nuova forma di “protezione speciale” e alcuni casi di rilascio di particolari permessi di soggiorno. Questi, però, sono applicati al momento solo a una ristretta minoranza di richiedenti asilo, prevalentemente per due ragioni: la prima è che il sistema di accoglienza deve essere riorganizzato sulla base di tali categorie e questo processo richiede tempo; la seconda consiste in una generalizzata ritrosia a riconoscere tali status. Se fino a settembre 2018 il tasso di riconoscimento di protezione umanitaria era intorno al 25%, con le nuove fattispecie tale percentuale è crollata al 12% di ottobre e al 5% di novembre.
A ciò si aggiunga un altro e fondamentale aspetto: la nuova forma di “protezione speciale” e i nuovi permessi di soggiorno, anche in presenza di un regolare contratto di lavoro, non potranno essere convertiti e il loro rinnovo è estremamente difficile. Questi fattori andranno a creare sui vari territori nuova irregolarità.
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Quali sono i documenti particolari introdotti dal “decreto sicurezza” che hanno sostituito la “protezione umanitaria”?
Come anticipato, il decreto ha abolito la protezione umanitaria, disponendo, al suo posto, la concessione della nuova “protezione speciale” e il rilascio di un particolare permesso di soggiorno in determinati e specifici casi.

  • Protezione speciale: evitare il refoulement (allontanamento forzato verso un paese non sicuro). Il permesso di soggiorno ha una durata di 12 mesi ed è rinnovabile previo parere favorevole della Commissione Territoriale; non è convertibile in permesso di lavoro.
  • Permesso per motivi di salute: il permesso ha una durata massima di 12 mesi ed è rinnovabile fino a quando le condizioni di salute restano gravi; non è convertibile in permesso di lavoro.
  • Permesso per calamità naturale: in presenza di una situazione di contingente ed eccezionale calamità naturale nel paese di origine. Il permesso ha una durata di 6 mesi ed è rinnovabile al massimo per altri 6; non è convertibile in permesso di lavoro.
  • Permesso per atti di particolare valore civile: il permesso ha una durata di 12 mesi ed è rinnovabile; è convertibile in permesso di lavoro.

I nuovi permessi di soggiorno particolari sono, oltretutto, interpretati in maniera molto restrittiva. Lo mostra bene il caso del permesso per calamità naturali le calamità naturali, di durata di 6 mesi e rinnovabile per altri 6 al massimo, nonostante questi fenomeni siano di lunga durata e, sempre più di frequente, irreversibili o quasi. Ne è un esempio la siccità (a cui conseguono carestia ecc.) nel Corno d’Africa e nell’Africa subsahariana, iniziata nell’ottobre 2015 e tuttora in corso.
Le persone che ottengono questo tipo di permesso, in considerazione della natura di estrema temporaneità della misura, che ha regime transitorio, non hanno diritto alla seconda accoglienza, ma solo alla prima. Il decreto ha, inoltre, modificato la dicitura di alcuni permessi di soggiorno già esistenti e previsti da tempo dal nostro ordinamento in “casi speciali”. I permessi di soggiorno con la nuova dicitura, da non confondere con la “protezione speciale”, venivano e vengono rilasciati alle vittime di tratta e sfruttamento, alle vittime di violenza domestica, alle vittime di sfruttamento lavorativo.
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Che succede alle persone che hanno fatto domanda d’asilo prima dell’entrata in vigore del “decreto sicurezza” ma ancora attendono l’esito di tale richiesta?
A ottobre le richieste d’asilo pendenti erano 107.500. Di queste 107.500, prima dell’entrata in vigore del “decreto Sicurezza”, circa 30.000 avrebbero avuto come esito la protezione umanitaria stando al tasso di riconoscimento medio. Oggi la maggior parte di queste 30.000 persone riceverà un diniego, diventando irregolare.
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E a coloro che sono già in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari cosa accadrà alla scadenza dello stesso?
Le persone attualmente titolari di protezione umanitaria non potranno chiederne il rinnovo alla scadenza, non esistendo più tale permesso di soggiorno. Per chi non ha la possibilità di convertire la protezione umanitaria in lavoro, l’unica possibilità è chiedere il rinnovo in protezione speciale, previo il parere favorevole della Commissione Territoriale, che avrà la durata di un solo anno e non potrà più essere convertito in lavoro. È stato stimato che, in virtù di tali modifiche, quasi 40.000 persone entreranno in condizione di irregolarità entro i prossimi due anni. Se già ospitate all’interno di un progetto Sprar (precedentemente finanziato), potranno portare il loro percorso a termine prima di uscire dal circuito della seconda accoglienza.
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In che modo il “decreto sicurezza” accresce il rischio di esclusione sociale?
La concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari consentiva di avviare percorsi di tutela e inclusione sociale, evitando che le persone non in possesso dei requisiti per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria e tuttavia non intenzionate e/o impossibilitate a tornare nel proprio paese d’origine, entrassero a far parte di quel folto gruppo di “invisibili” formato da coloro che si trovano nel territorio italiano senza un regolare permesso di soggiorno.
Le persone in questa condizione, spesso costrette a vivere in situazioni di forte emarginazione e degrado sociale, abitativo e igienico-sanitario, sono esposte al rischio di esclusione, sfruttamento e abusi. Rappresentano una preda facile per sfruttatori, caporali e truffatori, così come vanno incontro al rischio accresciuto di divenire bassa manovalanza della criminalità e/o di vere e proprie organizzazioni criminali.
In particolare, col precedente sistema di protezione, si attendeva un aumento di 60.000 persone in condizione di irregolarità tra giugno 2018 e dicembre 2020. La stima basata sugli effetti del “decreto sicurezza”, invece, ne prevede circa 140.000. Sommandoli ai già presenti, entro il 2020 potrebbero superare quota 670.000, una cifra più che doppia rispetto ad appena cinque anni fa, quando la stima era inferiore a 300.000.
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È possibile rimpatriare tutte le persone che non ottengono un regolare permesso di soggiorno?
La tesi per cui un così alto numero di persone in condizione di irregolarità diminuirebbe grazie ai rimpatri nei paesi di origine è priva di fondamento. Con un numero tanto elevato di individui in tale condizione, l’incidenza dei rimpatri può essere solo marginale: per rimpatriarli tutti sarebbero necessari 90 anni e solo a condizione che nel prossimo secolo non arrivi più nessuna persona sprovvista di un regolare permesso di soggiorno. Una condizione irrealizzabile. Non è tutto: mancano, infatti, gli accordi con gli Stati di provenienza, indispensabili per attuare i rimpatri.
Vale la pena notare, infine, che sostenendo la stessa spesa sarebbe possibile avviare efficaci programmi di inserimento.
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Cosa stabilisce il “decreto sicurezza-bis”?
Come il precedente “decreto Sicurezza”, anche questo interviene su aspetti eterogenei: contrasto all’immigrazione illegale, ordine e sicurezza pubblica; potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza; contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive.
Per ciò che concerne il “contrasto all’immigrazione illegale”, le previsioni operano tre importanti modifiche a supporto della politica rinominata dei “porti chiusi”:

  • la limitazione di ingresso, transito o sosta nelle acque territoriali rientrava, prima del decreto, tra le responsabilità del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; ora anche il Ministero dell’interno, d’accordo con il ministro della Difesa e con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, e informando il Presidente del Consiglio dei ministri, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale;
  • le ragioni che giustificano l’impedimento di accesso a un porto consistevano, prima del decreto, in “motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione” e in “motivi di protezione dell’ambiente marino”; ora questa decisione può essere adottata anche per contrastare il fenomeno dell’immigrazione via mare;
  • la sanzione amministrativa pecuniaria per la violazione, da parte del comandante di una nave, del divieto di ingresso, transito o sosta consiste nel pagamento di una somma da 150 mila a 1 milione di euro. È sempre disposta la confisca dell’imbarcazione. Non vi è obbligo di notifica del divieto di ingresso al comandante della nave, oltre che “ove possibile” ad armatore e proprietario. Si prevede obbligatorio l’arresto in flagranza (del comandante) per reato di resistenza o di violenza contro nave da guerra (es. le navi della guardia costiera italiana) previsto dall’articolo 1100 del codice della navigazione.

Le attività di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo continuano a essere regolate dal diritto internazionale in modo invariato. Anche l’art. 19 della Convenzione di Montego Bay in merito all’immigrazione irregolare, richiamato dal nuovo decreto, infatti non fa riferimento alle persone che sono state portate in acque territoriali in seguito ad operazioni di soccorso. Tuttavia le novità introdotte dal “decreto sicurezza-bis” hanno sulle attività di SAR ricadute tali da ostacolarle e rappresentano, inoltre, un disincentivo allo svolgimento delle stesse.
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Perché non respingiamo i migranti e li rimandiamo da dove sono partiti o nei loro paesi di origine?
C’è una regola molto semplice alla base del diritto dei rifugiati: nessuno stato può deportare una persona in un altro stato, senza prima essersi assicurato che quella persona non subirà torture, persecuzioni o altre gravi violazioni dei diritti umani una volta ritornata. Rinviare le persone “da dove sono venute” potrebbe significare metterle a rischio di gravi violazioni dei diritti umani, in netto contrasto con quanto stabilito dal diritto internazionale dei rifugiati.
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Perché Amnesty International è contraria alla politica dei “porti chiusi”? E cosa propone in alternativa, di accoglierli tutti?
La politica dei “porti chiusi” nasce anche in maniera provocatoria per sollecitare gli altri paesi a farsi carico della gestione de migranti. In questo senso, in attesa della riforma di Dublino, la partecipazione al meccanismo di redistribuzione dei migranti tra i paesi dovrebbe essere la più ampia possibile e dovrebbe essere decisa a priori, piuttosto che gestita caso per caso, con il risultato di lasciare le persone a bordo per giorni mentre viene definito un accordo. Insieme alla richiesta rivolta agli Stati membri di intensificare gli sforzi per attuare e aumentare gli impegni di reinsediamento e aprire percorsi alternativi di protezione rivolti alle persone che ne hanno necessità, impegnandosi a rivedere le politiche migratorie al fine di facilitare percorsi regolari, chiediamo di:

  • garantire che un numero adeguato di navi aventi come scopo principale la ricerca e il salvataggio siano dispiegate lungo la rotta percorsa dalle imbarcazioni che trasportano migranti;
  • frenare la criminalizzazione dell’attività di soccorso in mare: l’Italia dovrebbe astenersi dal penalizzare i capitani delle navi che fanno attività di salvataggio in mare per aver assistito persone in difficoltà, minimizzando qualsiasi perdita economica per i singoli e garantendo che a tutte le imbarcazioni che si trovano in tali situazioni sia prontamente concesso un luogo sicuro dove i sopravvissuti possono sbarcare e ricevere un’assistenza adeguata;
  • fornire linee guida chiare ai comandanti per impedire lo sbarco di qualsiasi persona salvata in mare nei paesi come la Libia, che non può essere considerata un luogo sicuro;
  • consentire che le operazioni di ricerca e salvataggio da parte di navi civili, comprese le imbarcazioni gestite da Ong, si svolgano senza ostacoli, astenendosi dall’invitare a sbarcare in Libia le persone salvate;
  • ridurre la cooperazione con la Guardia Costiera Libica, anche chiedendo che questa limiti la propria attività di ricerca e salvataggio alle acque libiche e solo nei casi in cui le sue navi siano in grado di rispondere più rapidamente ad un’imbarcazione in pericolo in acque internazionali;
  • garantire un solido monitoraggio della condotta e delle operazioni in mare della Guardia costiera libica e un processo di rendicontazione trasparente in caso di violazione del diritto internazionale.

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Qual è l’effetto concreto di questi cambiamenti sui soccorsi in mare?
L’acquisizione di un ruolo decisionale più forte da parte del ministero dell’Interno può portare a far prevalere logiche securitarie al momento di prendere decisioni operative, privilegiando la protezione delle frontiere a scapito della tutela dei diritti di migranti e rifugiati e del rispetto delle convenzioni internazionali sul soccorso in mare.
Il “decreto sicurezza-bis”, infatti, cita in modo esplicito come possibile causa di limitazioni all’accesso alle acque territoriali l’immigrazione. Sebbene i provvedimenti che limitano l’ingresso, il transito o la sosta all’interno delle acque territoriali possano essere impugnati (non dimentichiamo che gli obblighi derivanti dal diritto internazionale restano invariati), nell’immediato si verifica comunque una compressione dei diritti dei migranti e dei rifugiati coinvolti. Qualora il comandante decida di andare contro il provvedimento ministeriale, ignorando la limitazione imposta, incorre in sanzioni economiche così pesanti da rappresentare un vero e proprio deterrente (la confisca della nave, per esempio, in considerazione del suo valore).
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In che senso sono “compressi” i diritti di migranti e rifugiati?
Negando alle imbarcazioni che hanno soccorso migranti e rifugiati la possibilità di attraccare, viene impedito l’accesso di migranti e rifugiati alle procedure propedeutiche alla richiesta di protezione internazionale. Questo appare ancora più grave se si considera che non vi sono, attualmente, vie di ingresso sicure e legali verso l’Unione europea.
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Il “decreto sicurezza-bis” prevede strumenti a supporto dei rimpatri?
Sì, un fondo destinato a finanziare interventi di cooperazione “con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione europea”. Questa misura, è problematica sotto più aspetti:

  • il fondo potrebbe finanziare anche paesi che violano diritti umani fondamentali;
  • si potrebbe verificare il mancato rispetto del principio di non refoulement;
  • non è coerente con le politiche europee in materia di cooperazione internazionale finalizzate alla riduzione e all’eliminazione della povertà attraverso interventi atti a potenziare la protezione sociale, la sanità, l’istruzione, il lavoro, lo sviluppo industriale, l’agricoltura sostenibile e l’energia;
  • potrebbe foraggiare l’apertura di un “mercato dei rimpatri” in cui i paesi partner possono aspettarsi di incassare un prezzo per politiche di riammissione collaborative o, al contrario, di non collaborare in assenza di esso.

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