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“Ribadiamo l’impegno a continuare a combattere i vergognosi reati che violano i principi e i valori della società […]. L’Egitto proteggerà i confini dello spazio virtuale dalle forze del male“.
Con queste due dichiarazioni diffuse dalla procura generale il 29 aprile e il 2 maggio, le autorità egiziane hanno inaugurato una nuova fase della strategia repressiva per controllare la Rete.
Dalla fine di aprile 10 influencer di TikTok, seguite da centinaia di migliaia se non addirittura milioni di persone, sono state arrestate e sottoposte a procedimenti giudiziari per violazione della Legge sui reati informatici, “indecenza“, “incitamento all’immoralità“, “incitamento alla dissolutezza” e “violazione dei principi e dei valori della famiglia“.
Gli arresti sono scattati dopo denunce di uomini che si erano sentiti “oltraggiati” e a seguito di indagini del dipartimento del ministero dell’Interno che si occupa di questioni morali.
Quatto delle 10 influencer sono state condannate: Manar Samy e Sama el-Masry a tre anni, Hanin Hossam e Mawada el-Adham a due. I processi d’appello si svolgeranno nelle prossime settimane. Le altre sei influencer sono in attesa del processo.
Amnesty International ha esaminato le vicende giudiziarie di cinque delle 10 influencer.
Negli atti giudiziari si fa continuo riferimento al modo di vestire, alla “influenza” sul vasto pubblico dei social media e al fatto di fare soldi attraverso la Rete.
Ad Hanin Hossam, durante il processo, è stato rinfacciato di aver ottenuto “popolarità sui social media” e di “influenzare le giovani“. Lei è al centro di un’inchiesta separata, addirittura per coinvolgimento in “traffico di esseri umani“, a causa di un video su Instagram in cui incoraggiava ragazze di età superiore a 18 anni a pubblicare video di sé stesse sull’app Likee, che aumenta i guadagni in relazione al numero di visitatori.
Nel processo alla danzatrice del ventre Sama el-Masry, è stata esibita come prova una fotografia che la ritraeva in costume, ritenuta sufficiente per condannarla per aver pubblicato foto e video “ammiccanti” con “espressioni e movimenti che alludevano al sesso“.
Analogamente, nel processo contro Mawada el-Adham, arrestata il 15 maggio, la pubblica accusa ha esibito 17 selfie “indecenti“. L’imputata si è difesa sostenendo che quelle foto erano contenute in un telefono cellulare che le era stato rubato nel maggio 2019. Lei aveva sporto denuncia ma la polizia, anziché avviare indagini per rintracciare il ladro, le aveva chiesto perché avesse scattato quei selfie. È stata condannata per “violazione dei principi e dei valori della famiglia“.
La stessa strategia processuale è stata usata nel processo all’attrice e modella Manar Samy. L’imputata aveva denunciato già nel 2018 il suo ex marito, accusandolo di averla ricattata rendendo pubbliche foto intime scattate durante il periodo in cui erano stati sposati, in modo da poter ottenere l’affidamento della loro figlia. Per lei la condanna è stata di tre anni.
Il 22 maggio Menna Abdelaziz, 18 anni, ha iniziato una diretta su Instagram col volto pieno di lividi chiedendo alle autorità di arrestare l’uomo che accusava di averla violentata, picchiata e filmata senza consenso.
Quattro giorni dopo è stata arrestata insieme a sei uomini accusati dell’aggressione sessuale. È stata interrogata per quasi otto ore e alla fine, grazie alle dichiarazioni degli altri imputati, accusata di “incitamento alla dissolutezza” e “violazione dei principi e dei valori della famiglia“. È emerso che si era presentata a una stazione di polizia per sporgere denuncia ma le era stato detto di andare altrove perché quella non era territorialmente competente.
Menna Abdelaziz si trova attualmente in un rifugio governativo per le sopravvissute alla violenza, mentre le indagini nei suoi confronti vanno avanti.
“Processare una ragazza che ha chiesto pubblicamente aiuto è un’ingiustizia assurda che rischia di scoraggiare altre donne a denunciare le aggressioni sessuali“, ha commentato Lynn Maalouf, direttrice ad interim di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
“Invece di controllare quello che fanno le donne online, il governo dovrebbe dare priorità al contrasto alla violenza sessuale e di genere e a porre fine alla discriminazione di genere“, ha concluso Maalouf.