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#WhereAreEritreanDissidents. È questo l’hashtag con cui il 17 settembre Amnesty International ha lanciato una nuova campagna in favore di 21 tra giornalisti ed esponenti politici arrestati in Eritrea tra il 18 e il 23 settembre 2001, tornando a chiederne la scarcerazione.
I primi a essere arrestati, il 18 settembre, furono gli esponenti politici del cosiddetto G-15, tutti membri del partito al potere Fronte popolare per la democrazia e la giustizia, che avevano sottoscritto una lettera aperta in cui si chiedevano riforme urgenti: tra loro, l’allora vicepresidente del partito, Mahmoud Ahmed Sheriffo, la moglie ed eroina della guerra d’indipendenza Aster Fissehatsion e gli ex ministri degli Esteri Haile Woldetensae e Petros Solomon.
Seguirono, tra il 21 e il 23 settembre, gli arresti dei giornalisti che avevano pubblicato la lettera: Dawit Isaak, Seyoum Tsehaye, Dawit Habtemichael, Mattewos Habteab, Fesseaye “Joshua” Yohannes, Amanuel Asrat, Temesegn Gebreyesus, Said Abdelkader, Yosuf Muhamed Ali e Medhanie Haile. Da allora, tutta la stampa indipendente nazionale è al bando.
Tra gli altri prigionieri di coscienza eritrei figurano l’ex ministro delle Finanze Berhane Abraha, arrestato nel settembre 2018 per aver pubblicato un libro critico nei confronti del presidente Isaias Afewerki, e Ciham Ali, figlia dell’ex ministro dell’Informazione Ali Abdu, arrestata nel 2012 all’età di 15 anni mentre stava tentando di lasciare il paese.
Nel corso di questi anni sono circolate numerose voci sulla morte in carcere di nove dei prigionieri arrestati nel 2001 ma da parte della autorità eritree non è mai giunta conferma.
Amnesty International ha più volte denunciato la terribile situazione delle prigioni in Eritrea, che in alcuni casi si qualifica come trattamento crudele, inumano e degradante: le celle sono sovraffollate, i servizi igienico-sanitari sono inadeguati e le forniture di acqua potabile e cibo sono insufficienti.