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Oltre 9 arresti in 20 anni, 4 testate giornalistiche fondate e puntualmente chiuse dal governo: Eskinder Nega, giornalista etiope membro dello Unity for Democracy and Justice party, non si è fatto intimidire e non è rimasto in silenzio, ma ha continuato a lottare per la libertà di stampa nel suo paese.
Cresciuto negli Stati Uniti negli anni ’80, ha studiato scienze politiche ed economiche all’American University. Successivamente è rientrato in Etiopia inseguendo il sogno, che poi è diventato la sua missione, di raccontare la verità e difendere i diritti umani.
Come direttore ed editorialista del giornale “Satenaw” Eskinder Nega è stato arrestato nel 2005 a seguito delle proteste scoppiate a seguito delle elezioni generali del 15 maggio e culminate con una repressione senza precedenti: 200 i morti, 30mila gli arresti. Giudicato colpevole di “oltraggio alla Costituzione” e “incitamento alla rivolta armata“, il giornalista etiope ha scontato diciassette mesi in carcere.
Stessa sorte è toccata a sua moglie, Serkalem Fasil, giornalista arrestata sempre nel 2005 con le medesime accuse. In carcere Serkalem ha dato alla luce suo figlio.
“Prima o poi la libertà travolgerà l’Etiopia, inevitabilmente”.
Lo scriveva proprio Eskinder Nega il 9 settembre 2011, cinque giorni prima di varcare per l’ennesima volta la soglia del carcere di Kaliti, la sua seconda casa. Criticava, in quell’articolo, la facilità con cui il governo arrestava la gente in nome della lotta al terrorismo. In cella era finito anche il suo amico e popolare attore Debebe Eshetu, accusato di aver “fatto ricorso alla violenza per rovesciare il governo” e da sempre critico nei confronti del premier Zenawi.
Condannato a 18 anni e accusato di collaborare con il presunto gruppo terroristico Ginbot 7, Eskinder Nega ha sempre negato qualsiasi suo coinvolgimento e, quando nel gennaio 2018 il governo etiope ha proposto ai prigionieri politici di firmare una confessione in cui confermavano la loro collaborazione con il gruppo terroristico, Eskinder Nega si è rifiutato di farlo.
Il 14 febbraio, dopo undici lunghissimi anni di carcere, il giornalista è stato finalmente liberato.
A poche settimane dalla sua liberazione Eskinder Nega è tornato nuovamente in carcere il 14 marzo. Il giornalista è stato arrestato con altre 10 persone su ordine del Posto di comando, l’organismo cui è stata affidata la gestione dello stato d’emergenza proclamato a metà febbraio dopo le dimissioni del primo ministro Hailemariam Desalegn.
Questa volta la detenzione è durata pochi mesi: il 2 maggio è tornato definitivamente in libertà.
Eskinder Nega è stato accolto all’aeroporto di Washington DC con grande entusiasmo ma ha fin da subito ha promesso un ritorno in Etiopia per continuare il suo lavoro da giornalista e per proseguire con la lotta per la democrazia.
Parlando del tempo trascorso in prigione, ha detto: “L’obiettivo del governo non era solo quello di imprigionarti fisicamente, ma di uccidere il tuo spirito. La nostra trentennale esperienza in Etiopia nel tentativo di avere una stampa indipendente ci ha dimostrato che non si può avere una stampa libera senza prima avere la democrazia“.
Fin dall’inizio Eskinder Nega e sua moglie sono stati “adottati” da Amnesty International come prigionieri di coscienza, incarcerati e perseguitati solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione. In questi anni abbiamo lottato al loro fianco e in loro difesa, insieme a milioni di persone che hanno firmato i nostri appelli che chiedevano per entrambi la loro scarcerazione.
Per comprendere il rischio e l’importanza del lavoro di Nega, bisogna conoscere la situazione dei mezzi di comunicazione indipendenti in Etiopia.
La Costituzione etiope, che promette di difendere la libertà di espressione, cita: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione senza alcuna interferenza. Questo diritto include la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza confini, oralmente, per iscritto o attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione di sua scelta“.
Ma l’Etiopia ha un terribile passato di giornali chiusi e di giornalisti imprigionati.
Nel 1992, l’Etiopia ha emesso una legge sulla stampa che, oltre a limitare la libertà di espressione, ha consentito al governo di bloccare le pubblicazioni che, a suo giudizio, fornivano ‘false’ informazioni.
L’Etiopia è diventato così, negli anni ’90, uno dei paesi leader nell’imprigionare i giornalisti. Secondo soltanto a Cuba e alla Cina.
In prossimità delle elezioni del 2005, c’è stato un breve periodo in cui la libertà di stampa ha goduto di un po’ di respiro. Tuttavia, all’indomani di quelle che si sono rivelate elezioni controverse, c’è stato un giro di vite sui media indipendenti.
Gli scontri tra l’esercito governativo e i manifestanti hanno provocato decine di vittime tra i civili e le forze di polizia hanno iniziato una caccia alle streghe nei confronti dei giornalisti, arrestati a dozzine e accusati di reati gravi come il tradimento e, perfino, il genocidio. Tra di loro c’è chi ha trascorso decenni in carcere e chi è stato messo a morte.
In Etiopia, oggi, il giornalismo è ancora un mestiere pericoloso.
I problemi con la libertà di stampa in Etiopia sono aggravati dal fatto che la maggior parte della popolazione usufruisce di Internet limitatamente, non avendo la possibilità di poter accedere a fonti internazionali di notizie.