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La dichiarazione dello stato d’emergenza e i conseguenti, duri provvedimenti adottati dal governo dell’Etiopia non faranno altro che peggiorare una crisi che nell’ultimo anno ha causato la morte di oltre 800 manifestanti.
I provvedimenti adottati a seguito dello stato d’emergenza comprendono l’autorizzazione a eseguire arresti senza mandato e quelle misure di ‘riabilitazione’ che in passato hanno favorito la detenzione arbitraria di manifestanti in basi militari situate in zone isolate del paese, senza accesso a familiari e avvocati.
Si tratta, secondo Amnesty International, di provvedimenti radicali e di contenuto troppo ampio, tali da mettere a rischio quei diritti umani fondamentali che non possono essere limitati neanche sotto lo stato d’emergenza; provvedimenti destinati ad aggravare, e non a mitigare l’attuale crisi senza affrontare le cause di fondo che hanno dato luogo a un anno di proteste.
Invece di limitare ulteriormente i diritti umani, il governo dell’Etiopia dovrebbe impegnarsi a proteggerli, iniziando col rilascio di tutte le persone arrestate arbitrariamente (giornalisti, blogger, oppositori politici, manifestanti pacifici) e con l’avvio di un dialogo costruttivo con i promotori delle proteste.
Queste sono iniziate nel novembre 2015, quando gli Oromo sono scesi in strada per chiedere il ritiro del progetto di nuovo piano regolatore della capitale Addis Abeba, che avrebbe tolto loro dei terreni e avrebbe esteso il controllo amministrativo centrale sulla regione di Oromia. Le proteste sono proseguite anche dopo che il progetto è stato accantonato, estendendosi a chiedere il rilascio dei prigionieri politici, la fine della discriminazione e i processi per i responsabili delle passate violazioni dei diritti umani.
Le proteste si sono poi estese alla regione di Amhara che da tempo denuncia di essere emarginata dalle politiche governative.