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L’11 settembre 2013 saranno trascorsi 40 anni dal sanguinoso colpo di stato diretto dal generale Pinochet. Sotto il suo governo militare, le forze armate e di sicurezza cilene uccisero o fecero sparire oltre 3000 persone. Migliaia di persone furono costrette all’esilio. Approfondisci
Leggi le storie di:
– Isabel Allende, scrittrice cilena– Julio Etchart, fotografo e l’ex giornalista esperto di America Latina Hugh O’Shaughnessy hanno rilasciato un’intervista in cui discutono del lavoro di Julio e dei diritti umani durante la dittatura di Pinochet.
– Lelia Pérez aveva 16 anni quando venne arrestata per la prima volta dai servizi di sicurezza. Divenne la cavia dei soldati, che la usavano per esercitarsi alla tortura. Alla fine del 1976, fu costretta a lasciare il Cile.
– Mario Irrázabal, professore d’Arte arrestato, detenuto e torturato a causa delle sue idee politiche e attività.
– Victor Hormazabal, esponente del Partito Socialista e responsabile del sindacato lovale dei lavoratori ospedalieri, venne arrestato e torturato. Fuggì dalla camera della morte e della tortura grazie all’intervento dell’ambasciatore norvegese Frode Nilsen.
– Roger Plant subito dopo il colpo di stato si recò in Cile per documentare gli arresti arbitrari, le torture e le sparizioni.
– José Zalaquett, avvocato e attivista per i diritti umani cileno costretto ad andare in esilio.
– Gloria Elgueta, sorella di Martin arrestato dalla polizia politica di Pinochet e portato nel famigerato centro di tortura di Londra 38
La prima volta che Lelia Pérez avvertì il bruciore di un pungolo da bestiame fu quando questo strumento era nelle mani di un soldato cileno. Questa studentessa di 16 anni era diventata la cavia dei servizi di sicurezza, i cui soldati la usavano per esercitarsi alla tortura. Non si prendevano il disturbo di farle neanche una domanda.
‘Gli spiegavano come interrogare, come applicare la corrente elettrica, dove e per quanto tempo. Quando mi torturavano, finivo in un mondo tutto io, era come se stessi guardando me stessa da fuori, come se non stesse accadendo a me. Una cosa brutale’.
Nei giorni seguenti al colpo di stato di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973, centinaia di persone vennero arrestate e portate nei due principali stadi di calcio della capitale Santiago.
Lelia fu arrestata insieme ad altri 10 compagni di scuola e portata allo Stadio del Cile (ora ribattezzato Stadio Victor Jara, in memoria dell’artista che vi fu imprigionato). I detenuti erano tenuti sugli spalti, con le mani legate e mitragliatrici costantemente puntate contro.
‘Perdevi rapidamente il senso del tempo, come se le luci fossero sempre accese. Capivi se era giorno o notte solo dal cibo fornito ai militari che ci sorvegliavano’.
Intanto, all’interno stadio, venivano costruiti dei gabbiotti speciali. È qui che avvennero le peggiori torture. Lelia vi passò cinque giorni prima di essere liberata, senza alcuna spiegazione, scaraventata in una strada, di notte.
‘Ero stata costretta a indossare vestiti di persone che avevamo visto morire. C’era il coprifuoco e le poche persone che circolavano si tenevano a distanza. La strada era piena di bordelli e alcune operatrici del sesso mi portarono dentro, mi fecero lavare e mi diedero dei vestiti. Entrai in quello stadio a 16 anni, quando ne uscii mi sembrava di averne 60′.
Quei giorni di terrore furono solo l’inizio di una vicenda terribile che portò Lelia attraverso alcune delle più famigerate prigioni di Pinochet. Nel corso di due anni, venne imprigionata tre volte e sempre torturata.
Il paese del terrore
Quando Lelia fu rilasciata dallo Stadio del Cile, il suo paese era quasi irriconoscibile. Pinochet aveva imposto numerose limitazioni e migliaia di attivisti sociali, insegnanti, avvocati, sindacalisti e studenti erano stati arrestati e portati in decine di centri clandestini di detenzione.
Per niente spaventata da quello che le era accaduto, Lelia terminò le scuole superiori e s’iscrisse al Politecnico, fulcro di attivismo politico, per intraprendere gli studi di Storia. Ma la sua libertà duro poco e il prezzo da pagare fu altissimo.
Una notte di fine ottobre del 1975, la polizia politica di Pinochet bussò alla sua porta. La portarono via, insieme al fidanzato.
‘Mi misero le manette e mi caricarono su un’automobile. Poi mi coprirono gli occhi col nastro adesivo sugli occhi e occhiali scuri. Il nastro m’impediva di vedere e gli occhiali scuri servivano a far vedere che non ero vittima di un sequestro’.
Dietro le porte chiuse
Dopo mezz’ora di viaggio, l’automobile si fermò nel centro di Santiago, a Villa Grimaldi, un’antica casa di villeggiatura dell’era coloniale trasformata in centro di detenzione e tortura dalla Dina, la polizia politica di Pinochet.
‘Ci portarono in una stanza d’interrogatorio dove c’era un letto di metallo. C’era sopra un altro detenuto e il mio fidanzato venne legato al bordo. Interrogavano tre detenuti contemporaneamente, facendo a turno per applicarci la corrente elettrica. La sessione dell’interrogatorio durava dalla notte alla mattina successiva’.
A Villa Grimaldi i detenuti vennero sottoposti alla corrente elettrica, al waterboarding (semiannegamento), costretti a stare con la testa infilata in secchi di urina o di escrementi o soffocati con buste di plastica, appesi per le mani o i piedi e bastonati. Molte donne vennero stuprate e per molti detenuti la punizione fu la morte.
Per i detenuti le celle buie e umide in cui erano reclusi erano l’unico mondo esistente. A volte ne scaturiva anche un senso di comunità.
‘Dopo l’interrogatorio, ti riportavano nella tua cella. Chiudevano la porta e la prima cosa che avvertivi era che qualcuno si avvicinava a te, ti prendeva le mani, ti aiutava a distenderti, ti toglieva le bende e versava un po’ d’acqua sulle tua labbra. Le scariche elettriche provocavano tanto sudore e una forte disidratazione, avevi tantissima sete’.
Si stima che a Villa Grimaldi finirono 4500 prigionieri. Molti non ne uscirono, centinaia risultano ancora scomparsi.
Lelia passò quasi un anno a Villa Grimaldi. Poi fu trasferiva in un campo di lavoro, dove trascorse altri 12 mesi prima di essere costretta a lasciare il paese, alla fine del 1976.
Oltre un decennio dopo, quando Pinochet lasciò il potere al seguito di un referendum, Lelia tornò in Cile e si recò a Villa Grimaldi per cercare di fare i conti col suo passato. Ora la casa coloniale è un centro culturale a disposizione della comunità locale.
‘Abbiamo trasformato un luogo di distruzione in un centro di costruzione. Quella casa delle torture e della morte ora è uno spazio che promuove la vita’.
Guarda il video dell’intervista a Lelia Pérez