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Amnesty International ha dichiarato oggi che in un anno di presidenza delle Filippine Rodrigo Duterte e la sua amministrazione sono stati responsabili di una vasta gamma di violazioni dei diritti umani, intimidazioni e arresti di personalità critiche, e hanno instaurato un clima privo di legge.
Dalla più alta carica del paese, Duterte ha esplicitamente approvato la violenta campagna governativa contro la droga che ha causato migliaia di esecuzioni extragiudiziali, persino più di quante se ne contarono durante il regime omicida di Ferdinando Marcos dal 1972 al 1981.
“Duterte è salito al potere con la promessa di porre fine alla criminalità. Invece, migliaia di persone sono state uccise da, o per conto di, una polizia che agisce al di fuori della legge, su ordine di un presidente che non ha mostrato altro che disprezzo per i diritti umani e per coloro che li difendono“, ha dichiarato James Gomez, direttore di Amnesty International per il Sudest Asiatico e il Pacifico.
“La violenta campagna di Duterte non solo non ha posto fine alla criminalità o ai problemi legati alla droga ma ha anche trasformato il paese in un luogo ancora più pericoloso, compromesso ulteriormente lo stato di diritto e consegnato al suo ideatore la fama di leader colpevole della morte di migliaia di suoi cittadini“, ha aggiunto Gomez.
A febbraio, Amnesty International aveva pubblicato un drammatico rapporto in cui denunciava come la polizia si fosse trasformata in un’impresa criminale, uccidendo persone per lo più povere sospettate di consumare o vendere droga, assoldando sicari, impossessandosi dei beni delle persone uccise, collocando false prove sui loro cadaveri e rimanendo del tutto impunita.
Amnesty International aveva sottolineato con preoccupazione l’assenza di qualsiasi credibile indagine su quelle esecuzioni extragiudiziali di massa, equiparabili persino a crimini contro l’umanità. La risposta al rapporto di Amnesty International del segretario alla Giustizia era stata agghiacciante: “Quelli non erano esseri umani“.
A maggio, quando la situazione dei diritti umani delle Filippine è stata sottoposta all’Esame periodico universale del Consiglio Onu dei diritti umani, oltre 40 stati hanno espresso preoccupazione per l’ondata di esecuzioni extragiudiziali e il progetto di ripristino della pena di morte per i reati di droga, in violazione degli obblighi assunti dal paese nei confronti del diritto internazionale.
Amnesty International ha chiesto al governo filippino di invitare ufficialmente a visitare il paese il Relatore speciale Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie e ha sollecitato il Consiglio Onu dei diritti umani ad avviare un’indagine sulla “guerra alla droga”.
Una guerra contro i poveri
La cosiddetta “guerra alla droga” di Duterte ha pressoché completamente preso di mira le persone delle zone più povere delle città. I corpi pieni di sangue vengono lasciati nelle strade, a volte marchiati col segno dello spacciatore, come a suggerire che siano state le loro azioni a condurre inevitabilmente alla morte.
La polizia prende soldi in nero per eseguire gli omicidi, o paga sicari per farlo, sulla base di liste di nominativi preparate dalle autorità locali.
Invece di chiamarla a rispondere del suo operato, Duterte si è impegnato a proteggere la polizia, affermando recentemente che non permetterà che alcun soldato o poliziotto vada in carcere per aver “distrutto l’industria della droga“.
In un caso assai noto, riguardante la morte del sindaco di Albuera e del suo compagno di cella, l’accusa nei confronti degli agenti di polizia sospettati di aver sparato è stata ridotta da omicidio premeditato a omicidio preterintenzionale.
“Il governo di Duterte evita a ogni livello di assumersi le responsabilità. Non ci sono indagini credibili a livello nazionale e non c’è collaborazione col Relatore speciale Onu. La procuratrice del Tribunale penale internazionale potrebbe avviare un’indagine preliminare sugli omicidi di massa e, data la totale impunità in atto, questa opzione migliore“, ha sottolineato Gomez.
La pena di morte
Il disprezzo del governo di Duterte per il diritto internazionale si è manifestato in tutta evidenza col tentativo di reintrodurre la pena di morte per i reati di droga. Poiché le Filippine sono vincolate al rispetto del Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, si tratterebbe di un atto illegale. Mettere a morte persone per reati di droga è essa stessa una violazione del diritto internazionale.
“Nell’anno in cui le Filippine hanno la presidenza dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico e dovrebbero di conseguenza incoraggiare gli altri stati ancora mantenitori ad abolire questa pena crudele e irreversibile, Duterte sta guidando la regione nella direzione sbagliata con gravi conseguenze per le vite umane. Il Senato delle Filippine deve respingere questo tentativo di riportare il paese nel passato e lasciar cadere la proposta di legge sulla pena di morte una volta per tutte”, ha dichiarato Gomez.
Minacce ai difensori dei diritti umani
In questi 12 mesi, il presidente Duterte ha anche minacciato di “uccidere” gli attivisti per i diritti umani e, in un discorso fatto nel palazzo presidenziale nel maggio 2017, di “decapitare” i difensori dei diritti umani che criticano la situazione del paese. La principale voce critica del paese, la senatrice Leila de Lima, è in stato di detenzione.
“C’è il pericolo che l’assenza di legge si diffonda ancora di più. Quando i diritti umani e lo stato di diritto vengono messi da parte, la polizia si dà al crimine e la povera gente ne paga le conseguenze. Le forze di sicurezza hanno il dovere di attenersi alle norme e agli standard internazionali sui diritti umani. Se non lo fanno, si comportano esattamente allo stesso modo di coloro che dovrebbero contrastare”, ha commentato Gomez.
La legge marziale
La mortale campagna antidroga del governo ha distratto l’attenzione da altre questioni di grande importanza. Il 23 maggio Duterte ha dichiarato due mesi di legge marziale nell’isola meridionale di Mindanao, dopo che le forze di sicurezza erano state colte di sorpresa dall’attacco di gruppi armati che avevano preso possesso della città di Marawi. Sulla base del diritto internazionale, le misure d’emergenza devono essere limitate nella durata e nella portata e non possono essere usate come scusa per ignorare i diritti umani.