Chi sono i tre difensori dei diritti umani selezionati come finalisti del premio Martin Ennals 2019

24 Ottobre 2018

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Per l’edizione 2019 del premio Martin Ennals si terrà una cerimonia ospitata dal comune di Ginevra il 13 febbraio 2019. I nomi dei tre difensori dei diritti umani sono stati resi attraverso una nota stampa.

Il premio nasce per ricordare Martin Ennals, segretario generale di Amnesty International dal 1969 al 1980.

Per l’occasione, 10 organizzazioni per i diritti umani selezionano ogni anno i candidati a ricevere l’omonimo premio, destinato a chi ha dimostrato profondo impegno in favore dei diritti umani, spesso a rischio di essere imprigionato o torturato, se non di subire un destino ancora peggiore.

Il riconoscimento internazionale conferito dal premio, oltre a mettere in evidenza la loro storia e il loro lavoro, spesso fornisce una significativa forma di protezione.

I difensori dei diritti umani scelti dal premio Martin Ennals

Eren Keskin (Turchia)

Avvocata e attivista per i diritti umani, Eren Keskin lotta da oltre 30 anni per il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali in Turchia, soprattutto per i curdi, le donne e la comunità Lgbti. Con l’attuale peggioramento della situazione dei diritti umani nel paese, è di nuovo al centro di intimidazioni.
Nell’ambito di una campagna di solidarietà per il quotidiano Özgür Gündem, se ne è assunta la carica di direttrice dal 2013 al 2016, quando le autorità ne hanno ordinato la chiusura. Il 30 marzo 2018 è stata condannata a 12 anni e mezzo di carcere per aver pubblicato articoli ritenuti “degradanti” nei confronti della nazione turca e “offensivi” nei confronti del presidente. È attualmente libera, in attesa dell’esito dell’appello.

“Difendere i diritti umani non è semplice dalle nostre parti. Per aver espresso solidarietà a un quotidiano di opposizione e aver rivendicato la libertà di espressione, ho 143 capi d’accusa a mio carico. Grazie per non averci dimenticato. La vostra solidarietà e la vostra protezione significano davvero tanto". ren Keskin

Marino Cordoba Berrio (Colombia)

Membro del gruppo etnico afro-colombiano, Marino Cordoba Berrio ha guidato la sua comunità nella resistenza ai tentativi, poi andati a segno, di appropriarsi delle sue terre da parte di potenti interessi commerciali, soprattutto quelli legati all’estrazione mineraria e al taglio e trasporto del legname.

Dopo aver ottenuto il riconoscimento legale delle sue terre, nel 1996 gran parte della comunità è stata costretta con la forza a lasciarle. A seguito di costanti aggressioni e minacce di morte, Marino Cordoba Berrio ha chiesto e ottenuto asilo negli Usa, dove nel 2002 ha iniziato a costruire una rete di sostegno.

È tornato in Colombia nel 2012, impegnandosi da allora a far sì che le comunità etniche fossero coinvolte nel processo di pace ed entrando a far parte della “Commissione etnica per la pace e la difesa dei diritti del territorio” che fornisce raccomandazioni sull’attuazione dell’accordo di pace. Riceve regolari minacce di morte ed è costantemente sotto scorta armata.

“Credo nel potere della mia mente e delle mie mani per fare quello che è giusto. Senza giustizia il mio popolo non sopravvive. È nelle nostre mani anche promuovere il cambiamento e questo richiede che io mi esponga personalmente". Marino Cordoba Berrio

Abdul Aziz Muhamat (Papua Nuova Guinea / Australia)

Abdul Aziz Muhamat, più brevemente Aziz, di origine sudanese, è un coraggioso e instancabile difensore dei diritti dei rifugiati. Per aver chiesto asilo politico all’Australia, dall’ottobre 2013 – quando l’imbarcazione su cui era a bordo venne intercettata dalla Guardia costiera australiana – si trova in un centro di detenzione per migranti gestito dall’Australia sull’isola di Manus, che fa parte di Papua Nuova Guinea.

Lì ha visto amici morire, la polizia locale gli ha sparato contro, è stato trasferito in una prigione papuana per aver fatto lo sciopero della fame contro la sofferenza e i trattamenti crudeli inflitti ad altri richiedenti asilo.

È una delle voci più importanti che arrivano dall’isola di Manus. Nonostante l’isolamento del luogo, è riuscito a denunciare tramite podcast e interviste le dure condizioni detentive. Il prezzo che sta pagando è che tanto le autorità australiane quanto quelle papuane lo definiscono un “capobanda”.

“Denunciare questo sistema crudele mi aiuta a mantenere il rispetto per me stesso e la mia dignità umana. Non è sempre facile quando vivi in un clima di paura e persecuzione. Eppure farò di tutto per continuare ad andare avanti!". Abdul Aziz Muhamat