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Oggi, giovedì 26 settembre 2024, il tribunale distrettuale di Shizuoka ha emesso la sentenza tanto attesa: ha assolto Hakamada Iwao, l’uomo che ha scontato il più elevato numero di anni nei bracci della morte del Giappone.
Durante il primo processo, nel 1968, Hakamada era stato giudicato colpevole dell’omicidio del suo datore di lavoro, della moglie e dei loro due figli, sulla base di una “confessione” estorta.
Hakamada aveva “confessato” il crimine dopo 20 giorni di interrogatori da parte della polizia per poi ritrattare in aula, denunciando di essere stato minacciato e picchiato dagli agenti. Il tribunale distrettuale di Shizuoka lo condannò a morte e, da allora, Hakamada ha trascorso oltre 45 anni nel braccio della morte.
La condanna a morte era stata confermata dalla Corte Suprema nel 1980, ma nel 2014 il tribunale di Shizuoka aveva accolto la richiesta di un nuovo processo e ordinato la scarcerazione provvisoria di Hakamada, sulla base di oltre 600 nuove prove fornite dal pubblico ministero. Tuttavia, nel 2018, l’alta corte di Tokyo aveva annullato questa decisione. Gli avvocati di Hakamada avevano fatto ricorso e nel 2020 la Corte suprema aveva ordinato di rivedere il caso.
Nel marzo 2023, l’alta corte aveva infine confermato la decisione di procedere con il nuovo processo, che era iniziato nell’ottobre 2023. Nonostante l’esclusione della “confessione” forzata, i pubblici ministeri avevano continuato a chiederne la condanna a morte.
Il Giappone continua a eseguire condanne a morte, anche su persone ancora in attesa di appello, violando così le garanzie internazionali a tutela dei diritti di chi rischia la pena capitale. L’ultima esecuzione risale al 26 luglio 2022.
Al 31 dicembre 2023, 107 dei 115 detenuti nel braccio della morte avevano esaurito i loro ricorsi e si trovavano a rischio esecuzione. Questi prigionieri sono tenuti in isolamento e, in assenza di garanzie adeguate o di valutazioni psichiatriche regolari e trasparenti. Anche persone con disabilità mentali e intellettive continuano a essere condannate a morte, in violazione del diritto internazionale.
Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi senza eccezioni, indipendentemente dalla natura o dalle circostanze del crimine, dalla colpevolezza o innocenza dell’individuo o dal metodo utilizzato dallo stato per eseguire l’esecuzione.