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Il giorno in cui hanno sparato a 12 persone all’interno della redazione del settimanale satirico parigino Charlie Hebdo, il mondo venne a conoscenza delle terribili minacce cui vanno incontro ogni giorno gli operatori dell’informazione. Dietro questa tragica vicenda che ha catturato l’attenzione del mondo intero, ci sono migliaia di giornalisti che, in ogni angolo del pianeta, vengono molestati, intimiditi, minacciati, torturati e imprigionati o rapiti da governi e gruppi armati nel vile tentativo di evitare che svolgano il loro lavoro: far sapere alla società in cui vivono cosa accade.
In paesi come il Messico, avere un tesserino è così pericoloso che molti giornalisti finiscono per dimettersi per non dover avere più paura. Secondo Reporter senza frontiere, dall’inizio del 2015 sono stati uccisi 22 giornalisti e altri operatori dell’informazione. Erano stati un centinaio nel 2014. Nei primi quattro mesi di quest’anno, ne sono stati arrestati oltre 160. I responsabili non vengono quasi mai chiamati a rispondere delle loro azioni.
Negli ultimi anni, i governi appaiono sempre meno disposti a tollerare il dissenso e sono pronti a far qualsiasi cosa per evitare che i giornalisti parlino e informino il pubblico. Se vogliono proprio occuparsi di diritti umani – è questo il messaggio destinato a loro – devono prepararsi a passare un po’ di tempo in prigione o persino a morire.
In Pakistan, uno dei paesi peggiori da questo punto di vista, i giornalisti vanno incontro ogni giorno ad aggressioni, minacce, rapimenti, torture e uccisioni da parte delle forze armate, dei servizi segreti, di esponenti politici e dei gruppi armati. Dal 2008, si ritiene che 40 di loro siano stati uccisi per aver affrontato temi quali le violazioni dei diritti umani o la sicurezza nazionale. Sulla base delle informazioni di Amnesty International, i tribunali pakistani hanno processato solo i responsabili delle uccisioni di Daniel Pearl del Wall Street Journal, nel 2002, e di Wali Khan Babar di Geo News, nel 2014. Altri casi sono rimasti impuniti, come il tentato omicidio di Hamid Mir, un inviato di Geo Tv, sempre nel 2014 a Karachi.
Per migliaia di operatori dell’informazione la punizione per lo svolgimento del loro lavoro è costituita da condanne a lunghe pene detentive sulla base di false accuse. Mahmoud Abu Zeid, un fotogiornalista egiziano conosciuto come ‘Shawkan’, è in carcere da più di 600 giorni per aver ripreso le modalità violente con cui le forze di sicurezza hanno sgomberato il sit-in di Rabaa al-Adawiya, al Cairo, nell’agosto 2013. Non è mai stato incriminato e sta marcendo in una cella minuscola nel terribile carcere di Tora. ‘Condivido una stanza di tre metri per quattro con 12 prigionieri politici. Non vediamo il sole né abbiamo accesso all’aria fresca per giorni o a volte anche settimane. Sono un fotogiornalista, non un criminale. La mia reclusione a tempo indeterminato è psicologicamente insopportabile. Neppure gli animali sopravvivrebbero qui‘ – ha scritto di recente in una lettera resa pubblica da Amnesty International.
La storia di ‘Shawkan’ non è inusuale. Dalla deposizione del presidente Morsi, nel giugno 2013, numerosi giornalisti sono stati arrestati o sono finiti sotto processo in Egitto a causa del loro lavoro: 18 sono ancora dietro le sbarre, con poca speranza di ottenere la libertà. Proprio come in Egitto, molti governi nel mondo utilizzano i tribunali per evitare che i giornalisti parlino di diritti umani o per punire chi lo fa.
In Messico, il giornalista di origine maya Pedro Canché Herrera è in prigione dal 30 agosto 2014, per un presunto reato di sabotaggio nello stato del Quintana Roo. È stato arrestato giorni dopo aver pubblicato il filmato di una protesta sul carovita, organizzata dai residenti della municipalità di Felipe Carrillo Puerto fuori dall’ufficio dell’organismo locale dell’acqua.
Ma non basta. I governi ricorrono anche a raid nelle redazioni, intimidazioni e minacce di morte per impedire che i giornalisti documentino situazioni che devono restare fuori dal dibattito pubblico.
Alla fine del dicembre 2014, la polizia della Bosnia ed Erzegovina ha attaccato gli uffici del famoso portale di notizie klix.ba pretendendo che i giornalisti rivelassero le fonti di una registrazione audio in cui venivano denunciati gli livelli di corruzione nel paese. Il raid è durato sette ore. La polizia ha confiscato computer, 19 hard disk e cellulari personali e distrutto buona parte delle attrezzature in funzione. Un capo redattore e un giornalista sono stati portati via per interrogatori e poi rilasciati senza nessun accusa. In seguito, un giudice ha sentenziato che l’attacco è stato illegale poiché ha violato i diritti costituzionali dei giornalisti.
Dall’Iraq alla Repubblica Centrafricana, dalla Colombia alla Nigeria fino alla Siria, i giornalisti subiscono minacce e attacchi, anche mortali, mentre cercano di portare alla luce la violenza patita da milioni di uomini, donne e bambini in quelli che sono i conflitti più tremendi del mondo. In Nigeria, nel 2014, Hamza Idris ha ricevuto intimidazioni dall’esercito per aver denunciato l’incapacità delle forze armate di proteggere i civili in modo adeguato. In Colombia i giornalisti continuano a essere minacciati e perfino uccisi per aver denunciato le violazioni dei diritti umani nel conflitto armato ancora in corso nel paese e i legami poco trasparenti tra alcune autorità, i gruppi armati e la criminalità organizzata. Secondo la Fondazione colombiana per la libertà di stampa, nel 2015 26 giornalisti hanno ricevuto minacce e almeno uno è stato ucciso.
Il 21 gennaio i nomi di cinque giornalisti e di molti difensori dei diritti umani che si occupano di sfollamenti forzati e usurpazione di terreni, sono apparsi in un messaggio minaccioso di morte firmato dal gruppo paramilitare Autodefensas Gaitanistas de Colombia, che definiva i suoi obiettivi come collaboratori della guerriglia.
Anche l’Iraq è uno stato estremamente pericoloso per i giornalisti. Nell’aprile 2015 Ned Parker, il capo della sede dell’agenzia Reuters a Baghdad, ha dovuto lasciare il paese dopo essere stato minacciato sui social media e su un canale televisivo di proprietà di una milizia sciita. L’intimidazione è arrivata dopo la denuncia di violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito e dalle milizie sciite durante la liberazione di Tikrit, precedentemente caduta nelle mani del gruppo Stato islamico.