Giustizia, non vendetta. La Libia, un anno dopo l’uccisione di Gheddafi

18 Ottobre 2012

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Un anno dopo la cattura e l’uccisione del colonnello Muhammar Gheddafi, Amnesty International ha chiesto alle autorità libiche di trasferire immediatamente alla Corte penale internazionale l’ex capo dei servizi segreti Abdullah al-Senussi, attualmente agli arresti in Libia.

Ricercato dalla Corte penale internazionale dal giugno 2011 per crimini contro l’umanità, al-Senussi è stato estradato in Libia il 5 settembre 2012 dalla Mauritania, dove era stato arrestato a marzo. Da quando è in prigione in Libia, al-Senussi non ha avuto accesso ad avvocati, parenti e organizzazioni indipendenti. Anche se la legge libica non prevede il reato di crimini contro l’umanità, al-Senussi potrebbe essere condannato a morte, tra l’altro per l’esecuzione extragiudiziale di oltre 1200 detenuti del carcere di Abu Salim, nel 1996.

Il suo caso è, secondo Amnesty International, sintomatico di un sistema di giustizia nel caos.

Un anno dopo la fine delle ostilità, le vittime di gravi violazioni dei diritti umani, da parte sia dell’ex governo che dei suoi oppositori, attendono ancora giustizia. Quella che vediamo oggi all’opera in Libia è vendetta‘ – ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. ‘Processare al-Senussi in Libia, dove i processi equi sono fuori dalla portata del sistema giudiziario, pregiudicherebbe il diritto delle vittime alla giustizia e alla riparazione. Egli dovrebbe invece essere giudicato per crimini contro l’umanità, secondo criteri di equità, dalla Corte penale internazionale‘.

Nonostante l’elezione di un nuovo Congresso generale nazionale, il sistema giudiziario libico è virtualmente paralizzato.

Migliaia di persone sospettate di aver preso le parti o combattuto il deposto regime di Gheddafi sono agli arresti, nella maggior parte dei casi da 18 e più mesi e senza accusa né processo. Molte di loro hanno denunciato di aver subito maltrattamenti e torture e di essere stati costretti a firmare confessioni sotto tortura o altre forme di coercizione.

Nel corso di una visita nel paese, nel settembre 2012, Amnesty International ha incontrato procuratori, dirigenti di polizia giudiziaria, magistrati inquirenti e avvocati, i quali ultimi hanno fatto presenti le difficoltà e le minacce cui vanno incontro nel loro lavoro a causa del clima d’insicurezza e dell’autorità di fatto esercitata dalle milizie armate. Ben pochi avvocati sono disponibili a difendere presunti ‘lealisti gheddafiani’, sia per ragioni ideologiche che per paura di rappresaglie.

Questi timori sono giustificati alla luce dei numerosi casi di violenza, minacce e intimidazioni documentati da Amnesty International nei confronti di avvocati che difendevano sospetti sostenitori di Gheddafi. I familiari di questi ultimi hanno raccontato quanto sia difficile trovare un avvocato e quanto elevata sia la parcella di quelli disponibili.