Guantanamo: la mamma che ha portato G.W. Bush in tribunale

23 Gennaio 2023

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Siamo nel 2002, Rabiye Kurnaz è una donna turca immigrata a Brema, in Germania, dove vive con il marito e i tre figli. Quando scopre che il più grande è finito in un posto di cui nessuno ha ancora sentito parlare, Guantánamo, contatta l’avvocato Bernhard Docke. A questo incontro e a quello che ne è seguito è ispirato il film “Una mamma contro G. W. Bush” di Andreas Dresen, uscito in Italia con il nostro patrocinio e distribuito da Wanted nel 2022.

Murat Kurnaz è rimasto nel famigerato centro di detenzione per 5 anni ed è stato poi scarcerato senza accuse. Nel centro sono entrati 780 uomini, di cui soltanto otto sono stati processati.

A oggi, 35 uomini sono ancora detenuti a Guantánamo senza essere stati formalmente incriminati né processati.

Abbiamo incontrato Kurnaz e Docke in occasione dell’uscita del film nei cinema italiani. Ecco cosa ci hanno raccontato.

 

Cosa avete pensato quando vi è arrivata la proposta di raccontare in un film la vostra storia? E cosa avete pensato quando avete capito che il film avrebbe, a tratti, avuto un tocco leggero, di commedia?

BD: Siamo stati molto contenti quando abbiamo saputo dell’adattamento cinematografico della nostra storia. Secondo noi porta avanti un messaggio importante: che ci si debba sempre ribellare contro un’ingiustizia subita, tanto più se, come in questo caso, arriva da parte dello stato. È la storia di una donna di Brema che si ritrova a vincere una causa contro George Bush alla Corte Suprema. Potrebbe sembrare una favola ma non lo è, perché Murat è stato imprigionato, rinchiuso e torturato per cinque anni. E il fatto che il presidente degli Stati Uniti, nel ventunesimo secolo, abbia sostenuto la totale privazione dei diritti e la tortura nei confronti dei prigionieri è un fatto che mi indigna nel modo più assoluto. Nel corso di questa battaglia legale abbiamo anche ricevuto il sostegno da parte di Amnesty International, cosa di cui siamo molto grati. E in effetti la causa ruotava intorno a due argomenti che anche ad Amnesty stanno a cuore: la garanzia di un processo equo, sempre, a prescindere dal caso e dalla colpevolezza dell’imputato, e il divieto assoluto di tortura. Ecco, questo è il messaggio che secondo noi il film porta avanti.

Il film come dicevi ha anche degli elementi comici. Io credo che in ogni tragedia ci siano degli elementi di commedia e il senso dell’umorismo è stata un’arma necessaria per sostenere tutta la pressione e tutta l’amarezza. Questo elemento non è stato inserito in modo artificiale perché in realtà è proprio una caratteristica di Rabiye. L’attrice Meltem Kaptan l’ha interpretata proprio come è nella realtà, con la sua forza davvero straordinaria.

Nel film, il ritorno di Murat è raccontato in maniera molto delicata. Ora sappiamo che si è ricostruito una vita, ma si percepisce che il rientro a casa è solo l’inizio di un’altra battaglia. Cosa è importante adesso per Murat e per ribadire l’importanza dello Stato di diritto?

BD: La nostra fortuna è stata che Murat, in virtù di una grande forza fisica e mentale, è riuscito a superare il trauma legato alle torture e all’esperienza Guantánamo. Senza queste caratteristiche, oggi sarebbe un uomo distrutto. È quello che succede anche abitualmente: una persona vittima di tortura non riesce a reintegrarsi nella vita civile perché non riesce più a stabilire un rapporto di vicinanza e di relazione con le altre persone, né ad avere fiducia nei confronti di chi lo circonda. Per fortuna questo a lui non è successo: ha una nuova moglie, tre figlie eun lavoro stabile. Insieme abbiamo organizzato presentazioni e incontri pubblici e anche questo lo ha aiutato. Il lato particolarmente amaro della vicenda è che il governo tedesco, cioè del paese in cui lui è nato, cresciuto e in cui ha vissuto tutta la sua vita, lo ha abbandonato. Abbiamo saputo che quattro anni prima della sua liberazione il governo degli Stati Uniti d’America aveva constatato l’innocenza e non pericolosità di Murat e aveva offerto di trasferirlo in Germania. La Germania ha rifiutato questa offerta, un vero scandalo, che ci ha sconvolti e che noi abbiamo scoperto solo dopo la fine di tutta la vicenda.

 

Il 2001 ha rappresentato uno spartiacque: con la cosiddetta “guerra al terrore” e con il “sistema Guantánamo” si legittimarono la detenzione indeterminata senza processo, le commissioni militari e le prove raccolte sotto tortura. Quali anticorpi dobbiamo rafforzare per evitare che si torni indietro sui diritti?

BD: Condivido il giudizio appunto espresso da Amnesty International che vede l’11 settembre come uno spartiacque, come un momento a partire dal quale le cose sono cambiate, anche come il momento in cui c’è stato una sorta di abbassamento della percezione del significato dei diritti umani. Gli Stati Uniti sono sempre stati molto orgogliosi del loro sistema giuridico ma poi si sono comportati nel peggiore dei modi.

Dopo l’11 settembre, abbiamo assistito ad Abu Ghraib, a Guantánamo e alle violazioni dei diritti umani legate alla guerra in Iraq; fino alla più recente violazione del diritto internazionale, l’aggressione ingiustificata della Russia nei confronti dell’Ucraina. L’impressione è che in questi vent’anni l’accettazione dei principi del diritto internazionale si sia andata deteriorando. Che cosa possiamo fare? Tutti i paesi devono continuare a difendere questi valori e le generazioni future devono essere educate ai diritti umani e impararli da capo. Partecipo a moltissime iniziative nelle scuole, nelle università, in parte anche su invito di Amnesty International. Molti giovani nel sentire la storia di Murat imparano quanto sia importante difendere i diritti umani, anche contro un’aggressione da parte di uno stato.

 

Cosa è accaduto dopo? Nei rapporti con la vostra famiglia e il vostro lavoro?

RK: Ora sono molto impegnata con le mie tre nipotine, le figlie di Murat. Me ne occupo, le porto in giro, le accompagno a far compere. Mi occupo anche della mia salute. Ho diverse questioni a cui fare attenzione, devo prendermi cura di me. Se ripenso al passato, sono sicuramente profondamente traumatizzata e segnata dall’esperienza. Ricordo un periodo di incubi continui, ero in continuazione alla ricerca e in attesa di qualche buona notizia… è stato un periodo molto difficile che ha lasciato delle tracce profonde. C’erano anche gli altri due figli e mio marito ma ritenevo che tutto sommato fossero in una situazione di sicurezza, avevano da mangiare e da bere, erano liberi e liberi di muoversi… i miei pensieri erano per Murat, giorno e notte.

 

Come è cambiata, durante gli anni della vostra vicenda, la percezione di Guantánamo? Lentamente, per l’opinione pubblica il centro è diventato un simbolo di abuso, un buco nero dei diritti. Quanto ha influito sulla storia di Murat e cosa possono fare le associazioni per i diritti umani?

BD: Condivido la premessa: anche Murat, all’inizio era “il cattivo talebano. Quando abbiamo portato il caso davanti alla Corte Suprema il 28 luglio del 2004, e abbiamo vinto, è diventato chiaro che le richieste degli avvocati non erano eccessive: il racconto dei media su Guantánamo è cambiato moltissimo, è diventato più evidente il fatto che gli Stati Uniti erano responsabili di violazioni dei diritti umani e i prigionieri non sono più stati percepiti come “i cattivi terroristi”; e questo pian piano ha avuto influenza sull’opinione pubblica.

Devo dire che abbiamo ricevuto anche molti aiuti e sostegno da parte dei movimenti dei diritti civili e dei diritti umani, delle organizzazioni come Amnesty International e negli Stati Uniti. Sicuramente in Germania ha aiutato l’arrivo della Cancelliera Merkel; negli Stati Uniti Barak Obama ha potuto vincere le elezioni proprio con la promessa della chiusura di Guantánamo. Purtroppo non ha rispettato questa promessa ma il fatto stesso che si sia arrivati fino a questo punto nel prendere le distanze dal “sistema Guantánamo” è un ottimo risultato raggiunto dalla collaborazione di giustizia, organizzazioni civili e giornalisti e stampa. Ed è un esempio di come si possa organizzare un lavoro congiunto anche per il futuro.

RK: Volevo solo aggiungere un ringraziamento veramente molto, molto sincero ad Amnesty International per tutto l’aiuto che abbiamo ricevuto e per il sostegno nella promozione e la diffusione del film. Grazie con tutto il cuore per tutto l’interesse e il sostegno. Questa non è una storia di fantasia, è una storia vera e per questo motivo vi sono davvero particolarmente grata con tutto il cuore.