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Questo articolo è stato scritto da Marta Colomer, senior campaigner di Amnesty International sull’Africa occidentale e centrale, e pubblicato originariamente il 24 giugno sul Daily Maverick.
In Guinea Equatoriale centinaia di prigionieri languiscono in carcere per anni, senza possibilità di ricevere visite dei loro avvocati o familiari.
Queste persone dimenticate, molte delle quali imprigionate al termine di processi infarciti di irregolarità, si trovano in alcune delle più famigerate carceri del mondo, come quelle della “Spiaggia nera” di Malabo e quella di Bata.
Dal momento dell’ingresso in carcere, di questi prigionieri non si è più saputo nulla e i loro familiari non sanno neanche se siano ancora vivi o siano morti.
Alcuni anni fa, un prigioniero appena rilasciato descrisse la prigione della “Spiaggia nera” come una sorta di buco pregno dell’umidità che arrivava dal mare, in cui si viveva in condizioni inumane, in cui la tortura era la regola e la vita dei detenuti era messa a rischio dal sovraffollamento.
Amnesty International ha documentato svariati casi di prigionieri scomparsi: tra questi, Francisco Micha, un equatoguineano di 68 anni che viveva in Spagna dalla fine degli anni Novanta, e il suo amico Fulgencio Obiang Esono, un ingegnere italiano di origini equatoguineane.
Partiti da Roma per questioni di affari in Togo, dal giorno dell’arrivo nel paese africano, il 18 settembre 2018, sono diventati irrintracciabili. Circolarono subito voci che fossero stati rapiti dalle forze di sicurezza della Guinea Equatoriale e portati nella prigione della “Spiaggia nera”, poi fonti ufficiali confermarono la notizia.
Francisco e Fulgencio vennero processati insieme ad altri 110 imputati, tutti accusati di aver preso parte, nel 2017, a un tentato colpo di stato contro il presidente Teodoro Obiang. Il processo si svolse a Bata tra marzo e maggio del 2019.
Secondo gli osservatori presenti, il processo fu caratterizzato da numerose irregolarità. Molti degli imputati erano in prigione da oltre un anno senza neanche sapere di cosa fossero accusati.
Tutti i 112 imputati, alcuni dei quali non presenti in aula, vennero condannati a pene da tre a 90 anni di carcere.
Francisco e Fulgencio presero circa 60 anni a testa. Da allora, le loro famiglie vivono un incubo. Non capiscono come un viaggio d’affari in Togo possa essersi concluso in una prigione della Guinea Equatoriale.
A Madrid, dove vive la famiglia di Francisco, l’unica cosa che sanno è che l’uomo si recò a Roma per incontrare Fulgencio e che poi entrambi presero un volo per il Togo.
La moglie di Francisco prende pillole per dormire, vuole disperatamente sapere se suo marito è vivo o morto e non riesce a calmare la sofferenza dei loro figli. Ha visto l’ultima volta suo marito nel 2019, in televisione mentre venivano lette le sentenze del processo. Da allora, è come se la terra l’avesse inghiottito. Da due anni non ha alcuna sua notizia.
I cinque figli sono così disperati da non riuscire a condividere la loro sofferenza neanche con gli amici più stretti. Francisco era per loro un uomo buono con dei buoni valori. Avvertono la casa di famiglia come un ambiente ormai vuoto. Ricordano come loro padre tornasse ogni giorno a casa dal lavoro e chiedeva a ognuno di loro com’era andata la giornata. Soffrono perché non possono più raccontare al padre i loro segreti, perché non è lì ad aiutarli, perché non vedono più insieme le partite delle squadre di Madrid alla televisione.
Ma nonostante questo, hanno ancora speranza. Sognano il giorno in cui il padre tornerà a casa e gli racconteranno quanto sono bravi a scuola e come sono migliorati a giocare a calcio. Vogliono che Francisco sia orgoglioso di loro.
In Italia, la sorella di Fulgencio a volte si sente in colpa nel pensare che suo fratello sia morto. Le sue parole spiegano bene la sofferenza infinita che vorrebbe fermare.
“Se sapessi che Fulgencio è morto, con tutto il dolore del mondo l’accetterei e mi riconcilierei con me stessa. Ma non sapere se è morto o ancora vivo è un’agonia senza fine. Le autorità della Guinea Equatoriale non stanno ponendo fine solo alla vita di Fulgencio, stanno ponendo fine alla vita della sua intera famiglia. Voglio solo che il presidente ci dica se è vivo o morto. Ho paura che le autorità stiano facendo tutto questo calcolando che prima o poi ci dimenticheremo di mio fratello. Invece, non lo dimenticheremo”.
Le famiglie di Francisco e Fulgencio non sono le uniche a vivere questo incubo.
Nel novembre 2019 quattro esponenti di un gruppo di opposizione denominato Movimento per la liberazione della Guinea Equatoriale – Terza repubblica, vennero rapiti in Sud Sudan dalle forze di sicurezza equatoguineane e trasferiti nelle prigioni del paese. Pochi giorni dopo, fonti ufficiali dichiararono che i quattro erano tra gli imputati processati e condannati in assenza nel processo di maggio.
Quasi tutti i quattro oppositori mandavano avanti le famiglie, che ora sono alla rovina e stanno vendendo tutto per sopravvivere. Alcune non hanno neanche il coraggio di dire la verità ai figli, perché li farebbe impazzire: preferiscono dire che i papà sono in Guinea Equatoriale per lavoro.
Una delle madri si chiede:
“Come potrebbe mia figlia, che ha otto anni e che adora suo padre, comprendere che è stato condannato a passare 80 anni in carcere? Come dirle che non lo rivedrà più? Ha solo otto anni. Non posso farle questo. Mi si spezza il cuore quando penso che mia figlia non rivedrà più suo padre”.
In Guinea Equatoriale molti prigionieri sono ancora scomparsi, chiusi in “buchi neri e profondi”, nelle parole di un ex detenuto, soli e abbandonati, senza che le loro famiglie conoscano il loro destino.
Ma le famiglie tengono duro. Continuano a credere nella forza dei loro cari e che un giorno potranno essere rilasciati.
Sulla base delle leggi nazionali e del diritto internazionale dei diritti umani, una persona accusata di un reato ha il diritto a un processo equo. Ma in molti paesi del mondo, compresa la Guinea Equatoriale, questo non avviene e i diritti basilari della difesa vengono violati: gli avvocati non sono presenti agli interrogatori, i detenuti non vengono visitati da medici indipendenti, i contatti con le famiglie vengono negati e non viene impedito di usare le “confessioni” estorte con la tortura come prove durante i processi.
Amnesty International sta sollecitando il presidente Obiang a rispettare con urgenza il diritto internazionale dei diritti umani e ad assicurare che tutti i prigionieri siano protetti rispetto alla tortura, siano detenuti in condizioni umane e abbiano accesso ai loro avvocati e ai loro familiari.