Ibrahim Halawa: da ex detenuto a simbolo di resistenza e rinascita

21 Maggio 2025

Tempo di lettura stimato: 7'

“Molte persone meravigliose, durante questo calvario, hanno continuato a credere nell’innocenza di Ibrahim, si sono battute a suo favore e hanno sostenuto la famiglia in ogni modo possibile. Ora fanno parte della famiglia. A tutti coloro che ci hanno aiutato in un modo o nell’altro: un enorme grazie”

La famiglia Halawa

Amnesty International ha espresso solidarietà a Ibrahim durante tutta la sua detenzione, organizzando dibattiti, veglie, manifestazioni e firme di petizioni. Nel corso della campagna, Amnesty International ha collaborato con sindacati, organizzazioni studentesche, organizzazioni giovanili e altre organizzazioni non governative per chiedere la sua scarcerazione. Tutte questa azioni hanno dimostrato che la gente comune può fare davvero la differenza. 

 

Dall’Irlanda all’Egitto: un biglietto per l’inferno

Ibrahim Halawa ha solo 17 anni quando la sua vita cambia per sempre. È il 13 agosto 2013 quando insieme alle sorelle Somaia, Fatima e Omaima, parte da Dublino per trascorrere le vacanze in Egitto, il paese d’origine della sua famiglia. Suo padre, Sheikh Hussein Halawa, è uno degli imam più influenti d’Irlanda, e il viaggio dovrebbe essere un semplice ritorno alle radici, un’occasione per rivedere i parenti. 

Ma l’Egitto è un vulcano sul punto di esplodere. Dopo il colpo di stato militare che ha rimosso Mohamed Morsi dalla presidenza, le strade del Cairo si riempiono di manifestanti della Fratellanza Musulmana, che protestano contro il nuovo governo di Abdel Fattah al-Sisi. Ibrahim e le sue sorelle decidono di unirsi ai cortei, senza sapere che stanno per finire in una tempesta di sangue e repressione. 

 

Sparano sulla folla, arrestano gli innocenti

Il 14 agosto 2013, la protesta si trasforma in un massacro, “uno dei più grandi massacri di manifestanti in un singolo giorno della storia recente”. Le forze di sicurezza egiziane aprono il fuoco senza pietà. Le strade si riempiono di cadaveri, la paura è ovunque. Ibrahim, come molti altri, cerca riparo nella moschea Al Fath, ma il suo rifugio diventa presto una trappola. L’esercito circonda l’edificio e fa irruzione con la forza. 

Viene arrestato e trascinato via come un criminale. Le accuse sono assurde e grottesche: omicidio, tentato omicidio, disturbo all’ordine pubblico, protesta senza autorizzazione, possesso di armi, attacco alle forze di sicurezza. Tra le altre, viene accusato persino di aver impedito ai fedeli di pregare nella moschea Al Fath, proprio mentre si trovava all’interno nel tentativo di salvarsi. Amnesty International lo dichiara subito prigioniero di coscienza. 

Le sue sorelle vengono liberate dopo tre mesi e tornano in Irlanda, dove denunciano le torture che ha subito il fratello. Il giornalista di Al Jazeera, Peter Greste, che condivide con lui un periodo di detenzione nel carcere di Tora, conferma le violenze e le condizioni disumane in cui è costretto a vivere. 

 

Quattro anni nell’abisso

La prigione egiziana è un abisso. Ibrahim passa quattro anni e un mese dietro le sbarre, in condizioni inimmaginabili. Lunghi mesi di isolamento, torture fisiche e psicologiche, udienze rinviate senza motivo apparente. Per dieci volte il suo processo viene posticipato, l’ultima volta il 2 agosto 2017. Nel frattempo, rimane senza avvocato e senza speranza. Un proiettile lo ha colpito alla mano al momento dell’arresto, ma non riceve mai cure adeguate, e la ferita si aggrava fino a lasciare una lesione permanente. È costretto a condividere la cella con centinaia di altri detenuti in condizioni disumane. Il governo irlandese prova a negoziare la sua liberazione, ma senza successo. Persino Tony Blair, ex primo ministro britannico e inviato di pace in Medio Oriente, viene coinvolto per intercedere con Al-Sisi. Nulla cambia. 

 

Una vittoria contro il tempo e l’ingiustizia

Il 18 settembre 2017, dopo 1472 giorni di inferno, arriva finalmente la notizia che nessuno osava più aspettarsi: Ibrahim è assolto da tutte le accuse. Il processo farsa crolla su sé stesso: non esiste una sola prova contro di lui. Amnesty International, grazie ai ricercatori presenti sul posto al momento del suo arresto, conferma che non avrebbe potuto commettere i crimini di cui è accusato, e che il suo arresto è stato una punizione per aver esercitato il diritto alla protesta 

Il 20 ottobre 2017, Ibrahim torna in Irlanda da uomo libero, grazie anche alla campagna che Amnesty International ha portato avanti instancabilmente per quattro anni per ottenere la sua liberazione. Quasi 30.000 persone hanno agito per richiederne l’immediata e incondizionata libertà, centinaia di telefonate sono state fatte all’Ambasciata egiziana per protestare contro la sua detenzione, 13.000 cartoline di protesta sono state consegnate al Presidente egiziano al-Sisi. L’Irlanda intera si è mobilitata per riportarlo a casa. 

Ibrahim Halawa visita Amnesty International Irlanda a seguito del su rilascio.© Amnesty International

Ibrahim Halawa visita Amnesty International Irlanda a seguito del su rilascio.

Dalla prigione all’università: il riscatto di Ibrahim

Tornare alla normalità non è facile. Ibrahim è diventato maggiorenne in carcere, ma anni di ingiustizia lo hanno spinto su una nuova strada: il diritto. 

Oggi, Ibrahim Halawa non è solo un ex detenuto, ma un simbolo di resistenza e rinascita. “Non mi sono mai arreso”, racconta, “ogni giorno, anche in quella cella, mi sono immaginato libero. E adesso so che la libertà non è solo uscire da una prigione. È non lasciare che il passato definisca chi sei”.  

Nel 2023 si è laureato in giurisprudenza alla University College Dublin, un traguardo che nessuno avrebbe potuto immaginare mentre languiva in una cella egiziana. La prigione lo ha allontanato dal sogno di diventare ingegnere ma gli ha dato una missione più grande: combattere per la giustizia e i diritti umani. Una missione nella quale Amnesty International continua a supportalo.