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La recente decisione del ministero per gli Affari femminili di assumere il controllo delle case rifugio per le donne è estremamente preoccupante. Ho parlato con operatrici delle Organizzazioni non governative (Ong) che gestivano questi centri e si sono dette oltraggiate da questo provvedimento.
Negli ultimi anni ho potuto constatare di persona il modo di operare di cinque delle 14 case rifugio create dalle Ong in tutto il paese dopo la caduta dei talebani. Questi centri ospitano centinaia di donne e ragazze afgane le cui vite sono a rischio a causa di matrimoni forzati o precoci e di altre forme di violenza.
Amnesty International sollecita il governo afgano a rivedere questo terribile sviluppo legislativo e a rinnovare l’impegno a proteggere le donne afgane e quelle persone, nella maggior parte donne, che difendono i diritti umani cercando di ribaltare anni di discriminazione e di violenza sessuale contro le donne dell’Afghanistan.
Da donna afgana, posso dire di essere estremamente orgogliosa del lavoro delle mie colleghe, che hanno creato questi centri nonostante la mancanza di risorse, i pregiudizi culturali e le intimidazioni. Intimidazioni da parte dei familiari delle donne che cercavano aiuto, del governo, di politici alleati col governo, dei talebani e di altri gruppi anti-governativi.
In un caso, nel 2008, la fondatrice di una delle Ong che gestivano un centro è stata trattenuta per un giorno intero nell’ufficio del Procuratore generale, solo perché stava cercando di risolvere un caso di violenza domestica in cui era coinvolto un funzionario del governo.
Adesso, invece di sostenere gli sforzi di queste coraggiose donne afgane, la legislazione introdotta dal ministero per gli Affari femminili intende prendere il controllo dei centri e determinare chi ha diritto a essere ammessa alla protezione e chi no, attraverso una commissione composta da otto persone, comprendente rappresentanti di alcuni ministeri (Affari femminili, Interni, Affari sociali e lavoro, Salute pubblica e Giustizia), della Corte suprema, della Procura generale e della Commissione indipendente per i diritti umani. La decisione finale spetta a un rappresentante della società civile nominato dal ministero per gli Affari femminili.
La legislazione introduce inoltre il requisito di un ‘esame medico interno’, quando richiesto dalla commissione: si tratta del test utilizzato per scoprire se una donna abbia commesso adulterio, che in Afghanistan è un reato penale. Invece di essere utilizzato per proteggere le donne dalla violenza sessuale e procedere contro gli autori degli stupri, questo test serve a provare lo svolgimento di attività sessuali e dunque a determinare se una donna sia moralmente a posto e dunque ammissibile alla protezione!
Le donne che dirigono le case rifugio definiscono a ragione la legge del ministero per gli Affari femminili un insulto che renderà le donne nuovamente vittime e che potrebbe anche aprire la strada a criminalizzarle attraverso il reato di adulterio.
La commissione per le ammissioni non solo complica l’intero procedimento e nega protezione alle donne e alle ragazze che ne hanno bisogno, ma solleva un rischio enorme: che le donne in cerca di riparo dalla violenza subita da persone che hanno legami col governo vengano rimandate a casa a subirne altra!
In tutta evidenza, questa legge non è stata scritta per garantire il benessere e la protezione delle donne in condizioni di vulnerabilità. Non solo le insulta ed accresce il controllo invadente del governo sulla loro vita, ma è anche priva di qualunque garanzia o monitoraggio su quel benessere e su quella protezione, tanto più indispensabili se le donne saranno costrette a tornare in famiglia o non saranno comunque ammesse ai centri.
Il governo e il ministero per gli Affari femminili devono annullare questa legge e lasciare che le Ong, che meglio di chiunque altro sanno come prendersi cura delle donne a rischio, facciano il loro lavoro.
Se il governo afgano vuole davvero aiutare di più le donne vulnerabili, deve finanziare di più le case rifugio anziché limitare la loro attività.