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Amnesty International ha lanciato oggi la campagna #LaMiaOpinioneNonÈUnCrimine, per chiedere al parlamento libanese di abolire tutte le leggi che criminalizzano l’insulto e la diffamazione. Le autorità in Libano devono immediatamente mettere un freno a tutte le persecuzioni nei confronti di giornalisti, difensori dei diritti umani, attivisti e altre persone che esprimono critiche nei confronti dei funzionari dello stato.
La nuova campagna arriva nel bel mezzo di una serie di persecuzioni nei confronti di chi critica autorità politiche, giudiziarie, religiose e responsabili della sicurezza nel paese, con migliaia di persone finite sotto indagine dal 2015.
Recentemente la giornalista Dima Sadek è stata condannata a un anno di prigione e multata per 110 milioni di lire libanesi – equivalenti a circa 110.000 euro – a seguito di accuse di diffamazione e istigazione per aver criticato i membri di un partito politico su Twitter.
“Il caso di Dima Sadek è una vergogna. È l’esempio di come leggi penali antiquate vengano strumentalizzate per punire o mettere a tacere le critiche. La condanna di Sadek invia un messaggio intimidatorio ai giornalisti e ha l’obiettivo di dissuadere chiunque voglia esprimere critiche contro chi detiene il potere, siano essi funzionari dello stato, leader politici o figure religiose. Ciò avviene soprattutto in un periodo in cui l’impunità è diffusa e scoraggiare la libertà di espressione sembra essere diventato un modus operandi”, ha dichiarato Aya Majzoub, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del nord.
“Le leggi libanesi sull’insulto e la diffamazione sono fatte in modo da proteggere chi è al potere da ogni forma di critica. In un momento in cui i cittadini libanesi dovrebbero poter discutere liberamente di ciò che si aspettano dai loro leader, data anche la profonda sofferenza causata dalla crisi economica, i funzionari di stato stanno prendendo di mira giornalisti, difensori dei diritti umani, attivisti e altri individui che esprimono pacificamente le proprie opinioni e cercano di rendere pubbliche le accuse di corruzione”, ha proseguito Majzoub.
Dopo il movimento di protesta dell’ottobre 2019, Amnesty International, insieme a molte altre organizzazioni, ha documentato un aumento delle indagini e delle persecuzioni legate alla libertà di espressione. Tra il 17 ottobre 2019 e il 24 giugno 2020, Amnesty International ha documentato i casi di 75 persone, tra cui 20 giornalisti e giornaliste, chiamate in giudizio con accuse di diffamazione e insulto.
Oggi, mentre nel paese cresce il malcontento pubblico verso la gestione di molteplici crisi, Amnesty International ha verificato che funzionari di alto livello dello stato stanno nuovamente utilizzando in modo esponenziale norme penali repressive che non sono in linea con il diritto internazionale, al fine di silenziare i dissidenti. L’organizzazione ha intervistato 10 persone, attualmente sotto processo con l’accusa diffamazione e insulto a causa dalle loro critiche pacifiche. Nove delle denunce sono state presentate da funzionari di alto rango.
Dei 10 casi documentati da Amnesty International, tre riguardano persone sottoposte a interrogatorio a seguito di denunce per insulto e/o diffamazione, basate su alcune rivelazioni di presunte violenze perpetrate da funzionari di spicco e partiti politici.
A marzo, la Sicurezza dello stato, un’agenzia di intelligence libanese, ha intercettato l’auto di Jean Kassir, giornalista e co-fondatore dell’agenzia di stampa indipendente “Megaphone”, e lo ha convocato per un interrogatorio senza informarlo del motivo. In seguito, Kassir ha scoperto che la convocazione era basata su una denuncia per diffamazione presentata dal pubblico ministero, menzionato in un post su “Megaphone” nell’elenco dei “fuggitivi dalla giustizia” nel caso dell’esplosione del porto di Beirut, della quale il pubblico ministero era stato incriminato. La mobilitazione e la solidarietà pubblica nei confronti di Kassir hanno spinto il pubblico ministero a ritirare le accuse.
Jean Kassir ha raccontato ad Amnesty International:
“Non credo sia finita qui. Potrebbero emettere una nuova denuncia o convocazione nei nostri confronti da un momento all’altro, perché le nostre pubblicazioni li infastidiscono… Siamo in un paese dove non ci sono garanzie per la libertà di espressione e di stampa… Il mandato di comparizione è un tentativo di intimidazione e un messaggio politico contro di noi”.
Similarmente, a marzo, il dipartimento dei Crimini informatici delle Forze di sicurezza interne ha convocato Lara Bitar, direttrice editoriale del portale “Fonte pubblica”, un’agenzia di giornalismo investigativo, in base a una denuncia per diffamazione presentata da un importante partito politico libanese, a proposito di un articolo pubblicato otto mesi prima che accusava tale partito di presunti crimini ambientali durante e dopo la guerra civile libanese (1975-1990). A luglio, lo stesso dipartimento ha convocato Gina al-Chammas, presidente di un’organizzazione no-profit chiamata “Manager libanesi anti-corruzione certificati”, per un interrogatorio a seguito di una denuncia per diffamazione presentata da un ex ministro per alcune dichiarazioni da lei fatte riguardanti sue presunte attività corrotte.
Amnesty International ha constatato che i funzionari libanesi che hanno presentato denunce per insulto e diffamazione hanno utilizzato la legge come mezzo di ritorsione, molestia o intimidazione contro chi li criticava. In tutti i casi, le dichiarazioni per cui queste persone sono state prese di mira non solo sono protette dal diritto internazionale sui diritti umani, ma sono anche considerate necessarie per la trasparenza e la responsabilità in una società basata sullo stato di diritto.
Inoltre, le agenzie di sicurezza che hanno convocato e interrogato le persone accusate di insulto o diffamazione hanno ignorato le procedure standard che tutelano i diritti nei processi dei difensori dei diritti umani e hanno adottato comportamenti intimidatori, minacciando le persone o costringendole a firmare documenti in cui si impegnavano a smettere di criticare il querelante o a rimuovere i contenuti presunti diffamatori.
Le disposizioni riguardanti l’insulto e la diffamazione, vigenti nel codice penale, nella legge sulle pubblicazioni e nel codice di giustizia militare, possono comportare condanne fino a tre anni di prigione.
Tali leggi comprendono disposizioni che criminalizzano l’insulto a funzionari pubblici o istituzioni e che sono vaghe e soggettive, non riconosciute come reato dal diritto internazionale. Amnesty International chiede che queste disposizioni siano abrogate.
Inoltre, le norme sulla diffamazione non soddisfano gli standard internazionali dei diritti umani e limitano eccessivamente il diritto alla libertà di espressione.
Secondo il diritto internazionale dei diritti umani, le sanzioni penali per danno reputazionale sono punizioni sproporzionate e devono essere abolite. Le norme di diritto civile sulla diffamazione e le norme penali sull’istigazione sono sufficienti per proteggere la reputazione delle persone e mantenere l’ordine pubblico e possono essere scritte e applicate in modo da garantire una protezione adeguata alla libertà di espressione.
“La nostra nuova campagna #LaMiaOpinioneNonÈUnCrimine chiede alle autorità libanesi di abolire gli articoli del codice penale, della legge sulle pubblicazioni e del codice di giustizia militare che criminalizzano gli insulti e di sostituire gli articoli sulla diffamazione con nuove disposizioni civili. Tali riforme bilancerebbero la protezione della reputazione delle persone da danni ingiustificati, garantendo al contempo la protezione del diritto alla libertà di espressione,” ha concluso Aya Majzoub.