Industria mineraria cinese contribuisce alle violazioni dei diritti umani nella Repubblica Democratica del Congo

18 Giugno 2013

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Secondo un rapporto diffuso il 19 giugno da Amnesty International, intitolato ‘Perdite e profitti: lo sfruttamento minerario e i diritti umani nel Katanga‘, le compagnie minerarie cinesi che operano nella Repubblica Democratica del Congo devono impedire che le loro attività contribuiscano alle violazioni dei diritti umani nel paese africano.

Il rapporto descrive una serie di gravi violazioni dei diritti umani in cui sono coinvolte compagnie locali e straniere, tra le quali sgomberi forzati e condizioni di lavoro pericolose e che costituiscono forme di sfruttamento.

Il rapporto si sofferma in particolare sul ruolo delle compagnie cinesi, che sono in procinto di diventare gli attori economici stranieri più presenti e influenti nel settore estrattivo della Repubblica Democratica del Congo, paese che possiede una delle più importanti quote di riserve di minerali al mondo.

La Cina importa dal paese africano grandi quantità di cobalto e rame, buona parte delle quali è estratta da piccoli gruppi di minatori (chiamati ‘gli artigiani’) che lavorano manualmente e in condizioni spesso estremamente difficili.

‘Decenni di attività minerarie nella Repubblica Democratica del Congo hanno significato gravi violazioni dei diritti umani degli ‘artigiani’ e delle loro comunità’- ha affermato Audrey Gaughran, direttrice del Programma Temi globali di Amnesty International. ‘Non solo le autorità congolesi non hanno fatto niente per impedire che le compagnie minerarie e i commercianti commettessero violazioni dei diritti umani, ma esse stesse se ne rendono responsabili per facilitare le operazioni estrattive’.

Sollecitate da Amnesty International, molte delle compagnie citate nel rapporto hanno tentato di negare ogni responsabilità per le violazioni dei diritti umani, scaricandole sulle autorità locali.

Il fatto che le autorità congolesi non proteggano i diritti umani non esonera le compagnie dall’essere responsabili delle loro azioni e delle loro omissioni. È preoccupante che alcune di esse abbiano fatto riferimento al ruolo delle forze di polizia per dare una veste legale alle violazioni dei diritti umani‘ – ha proseguito Gaughran.

Secondo i Principi guida delle Nazioni Unite sulle imprese e i diritti umani, alle imprese spetta il rispetto di tutti i diritti umani. A loro volta, compete ai governi dei paesi in cui hanno sede le imprese, e dunque in questo caso a quello della Cina, verificare che queste non contribuiscano a violazioni dei diritti umani nei paesi in cui operano, come la Repubblica Democratica del Congo.

Chiediamo a tutte le compagnie coinvolte in attività minerarie nella Repubblica Democratica del Congo di cessare di presentare scuse e di iniziare a dimostrare di volersi impegnare sul serio a rispettare i diritti delle comunità sul cui territorio agiscono‘ – ha spiegato Gaughran.

Il rapporto di Amnesty International cita, tra gli altri, il caso di 300 famiglie vittime di sgombero forzato nella città di Luisha, quando la compagnia cinese Congo International Mining Corporation (Cimco) ha ottenuto i diritti di sfruttamento di un sito al centro della città.

Un funzionario locale aveva dato alle famiglie un preavviso di due settimane, scaduto il quale queste sono state trasferite in un altro terreno a bordo di camion a quanto pare appartenenti alla stessa Cimco. Sono state semplicemente abbandonate a se stesse, senza alloggio né alcuna infrastruttura. Il loro avvenire è incerto e non hanno alcuna sicurezza di poter rimanere sul posto dove sono state trasferite.

‘Siamo costretti a ripartire da zero. La vita è più difficile qui rispetto a dove eravamo prima’ – ha dichiarato una delle persone sgomberate.

L’accesso all’acqua è a sua volta limitato. Il 19 aprile 2012, nei pressi di Luisha, gli operai di una società mista sino-congolese, la Comilu, accompagnati da agenti di polizia, hanno utilizzato bulldozer e scavatrici per creare una trincea larga tre metri, impedendo così l’accesso a una strada di campagna usata da decenni dalla popolazione locale per raggiungere i campi e le fonti di acqua potabile. Ora i tempi di percorrenza sono molto più lunghi.

Quando gli abitanti hanno protestato, la polizia ha esploso colpi di pistola in aria e un uomo è rimasto ucciso da una pallottola vagante.

La maggior parte delle attività estrattive nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo è svolta da piccoli gruppi di ‘artigiani’, che lavorano in condizioni estremamente pericolose e sono vittime di sfruttamento. Le violazioni dei diritti umani degli ‘artigiani’ del Katanga sono diffuse. Ogni anno, molti di essi muoiono o restano gravemente feriti. Spesso lavorano a mani nude, senza tenuta di protezione e in luoghi mal ventilati, dove le temperature possono essere estremamente elevate. Malpagati, sono sistematicamente sfruttati. I minerali da loro estratti sono venduti all’estero, a imprese private e a stati, attraverso intermediari di una catena di approvvigionamento il cui funzionamento è opaco.

Alla miniera di Tilwezembe, a 30 chilometri dalla città di Kolwezi, Amnesty International ha potuto verificare condizioni di lavoro pericolose e casi di sfruttamento e maltrattamento. Si sono registrati feriti e morti a causa delle frane, della caduta delle rocce o dell’assenza di ventilazione adeguata.

Gli ‘artigiani’ di Tilwezembe vendono i loro minerali a Misa Mining, una compagnia privata che opera sul posto. Le istituzioni dello stato, tra cui le forze di polizia, che dovrebbero sorvegliare lo svolgimento delle attività, non fanno nulla per rimediare alle condizioni di lavoro agghiaccianti, pericolose e che mettono a rischio vite umane. Misa Mining ha dichiarato di non essere a conoscenza di problemi relativi ai diritti umani.

Una maggiore trasparenza nella catena di approvvigionamento potrebbe contribuire a impedire che siano commesse violazioni dei diritti umani come quelle riscontrate a Tiwezembe. Se tutte le imprese coinvolte nelle attività estrattive eseguissero periodicamente dei controlli per verificare che i minerali non siano estratti in condizioni degradanti e di sfruttamento, sarebbe fatto un passo avanti verso un commercio pulito dei prodotti minerari‘ – ha concluso Gaughram.