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Le condizioni di salute del ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, arrestato nel 2016 e poi condannato a morte per “spionaggio”, si fanno sempre più critiche. La moglie e i figli di Ahmadreza sono preoccupati e sentono cadere nel vuoto le loro grida di aiuto.
È per questo motivo che in una nuova lettera aperta indirizzata alla Guida suprema dell’Iran Ali Kamemei, 134 premi Nobel hanno chiesto che il ricercatore iraniano possa “tornare a casa da sua moglie e dai suoi figli e continuare il suo lavoro accademico a beneficio dell’umanità“.
Egregia Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei,
a partire dal novembre del 2017 Le ho scritto a nome di un gruppo di premi Nobel in riferimento alla difficile condizione di uno studioso di medicina, il dottor Ahmadreza Djalali, arrestato durante una visita accademica a Teheran nell’aprile 2016.
Le abbiamo scritto di nuovo nel 2018 e le adesioni hanno continuato a crescere.
In allegato troverà un elenco di 134 premi Nobel che ora sostengono questa causa.
Ci permettiamo di sollecitarLa a seguire personalmente questo caso e ad assicurarsi che il dottor Djalali sia trattato con umanità e correttezza e che venga rilasciato prima possibile.
Le chiediamo rispettosamente di dare indicazioni alle autorità iraniane affinché esse permettano che il dottor Djalali torni a casa da sua moglie e dai suoi figli e possa continuare a svolgere il suo lavoro accademico a beneficio dell’umanità.
Con i miei più rispettosi saluti.
Sir Richard Roberts Ph.D., F.R.S
Ahmadreza Djalali, scienziato di origini iraniane ma residente in Svezia, è stato condannato a morte e a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” (efsad-e fel-arz) dopo un processo gravemente iniquo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran.
Il verdetto della corte ha affermato che Ahmedreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.
Ahmadreza Djalali, che ha insegnato all’università in Belgio, Italia e Svezia, era in viaggio d’affari in Iran quando è stato arrestato dai funzionari del Ministero dell’Intelligence nell’aprile del 2016.
La sua famiglia non ha avuto informazioni sul luogo di detenzione per dieci giorni dopo il suo arresto. È stato tenuto in una località sconosciuta per una settimana prima di essere trasferito alla sezione 209 della prigione Evin di Teheran, dove è stato detenuto per sette mesi, tre in isolamento. Successivamente è stato spostato nella sezione 7 del carcere di Evin.
Ha affermato che, mentre in isolamento, gli è stato negato l’accesso ad un avvocato ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto che è stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran, al fine di fargli “confessare” di essere una spia.
Ahmadreza Djalali nega le accuse contro di lui e sostiene che siano state fabbricate dalle autorità. In una lettera dell’agosto del 2017 scritta dall’interno della prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Ue. La mia risposta è stata “no” e ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia“.
Firma ora
A giugno 2019, Vida Merhannia, moglie di Ahmadreza Djalali, accompagnata da una nostra delegazione, aveva incontrato il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico.
Vida, che vive in Svezia con i due figli nati dalla coppia, aveva descritto al presidente Fico le drammatiche condizioni di salute del marito. In carcere Ahmadreza ha perso decine di chili e non riceve cure adeguate. Recentemente, per salvaguardare la propria dignità, si è rifiutato di essere portato in ospedale ammanettato e con la divisa da prigioniero.
Al presidente Fico Vida Merhannia aveva parlato di un disperato bisogno di aiuto, rivolgendogli un appello affinché le istituzioni italiane potessero intraprendere un’azione incisiva ed efficace per salvare la vita del marito.