Iran, almeno cinque manifestanti sarebbero morti in carcere. Amnesty International sollecita indagini

10 Gennaio 2018

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Amnesty International ha sollecitato le autorità iraniane ad avviare immediate indagini sulle notizie secondo cui almeno cinque manifestanti sarebbero morti in carcere dopo l’arresto. L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto l’adozione di tutte le misure necessarie per proteggere i detenuti dalla tortura ed evitare ulteriori morti.

“L’estrema segretezza e la mancanza di trasparenza su cosa sia accaduto a questi detenuti è preoccupante. Invece di affrettarsi a dichiarare che si è trattato di suicidi, le autorità iraniane dovrebbero lanciare immediatamente un’indagine indipendente, imparziale e trasparente ed eseguire autopsie indipendenti sui corpi”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“Da tempo denunciamo le condizioni da incubo delle strutture detentive in Iran e l’uso della tortura”, ha aggiunto Mughrabi.

Sina Ghanbari, 23 anni, è morto nella sezione di quarantena della prigione di Evin, nella capitale Teheran, dove i detenuti vengono portati immediatamente dopo l’arresto. Gli attivisti per i diritti umani contestano la versione ufficiale secondo cui Ghanbari si sarebbe suicidato.

Secondo la nota avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, a Evin sono morti altri due detenuti la cui identità non è attualmente nota. Altre due persone arrestate durante le proteste, Vahid Heydari e Mohsen Adeli, sono morte rispettivamente ad Arak (nella provincia di Markazi) e Dezfoul (nella provincia del Khuzestan). Anche in questo caso gli attivisti e i familiari non credono alla versione ufficiale che parla di suicidio.

Molti parenti delle centinaia di persone arrestate negli ultimi giorni hanno denunciato di non essere stati in grado di ottenere informazioni sui loro cari e di aver subito intimidazioni e minacce da parte delle autorità per il solo fatto di aver chiesto notizie.

“Le autorità non solo devono fornire informazioni sui detenuti ai parenti di questi ultimi, ma devono anche consentire che questi possano incontrare le loro famiglie ed essere rappresentati da un avvocato. Nessuno dovrebbe subire rappresaglie per aver chiesto notizie su un familiare o aver cercato di sapere la verità sulla sua sorte”, ha concluso Mughrabi.

FINE DEL COMUNICATO

Roma, 10 gennaio 2018

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