Iran: “Urgente proteggere i prigionieri torturati a Evin”

19 Ottobre 2022

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Le autorità iraniane devono immediatamente consentire agli osservatori internazionali indipendenti di accedere, senza restrizioni, alle carceri iraniane per indagare sullo spaventoso uso illegale della forza da parte delle forze di sicurezza nella prigione di Evin a Teheran il 15 ottobre e per proteggere i prigionieri da ulteriori uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti.

Lo ha dichiarato Amnesty International, sottolineando che quanto accaduto a Evin ha messo ancora una volta in evidenza l’urgente necessità di un meccanismo investigativo d’indagine, di documentazione e di accertamento delle responsabilità per affrontare il susseguirsi di crimini commessi dalle autorità iraniane.

L’incendio divampato il 15 ottobre nella prigione di Evin è stato attribuito dalle autorità iraniane ai prigionieri ma le prove raccolte da Amnesty International pongono seri interrogativi sul fatto che le autorità abbiano cercato di giustificare la sanguinosa repressione col pretesto di spegnere l’incendio, così come d’impedire la fuga dei prigionieri.

Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International da prigionieri, parenti delle vittime, giornalisti e difensori dei diritti umani con contatti all’interno della prigione, le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno ripetutamente sparato gas lacrimogeni e pallini di metallo contro centinaia di prigionieri e hanno sottoposto molti di loro a brutali percosse con manganelli, in particolare sulla testa e sul viso. Amnesty International è anche seriamente preoccupata per i racconti di testimoni oculari provenienti dall’interno della prigione, secondo i quali le forze di sicurezza hanno puntato le pistole alla testa di parecchie prigioniere e potrebbero aver esploso munizioni vere contro alcuni prigionieri.

Le autorità iraniane hanno finora confermato otto morti e 61 feriti, ma i prigionieri temono che il numero possa essere molto più alto. Coerentemente con il modello con cui negano e coprono i propri crimini, le autorità hanno velocemente diffuso dichiarazioni attribuendo le morti ad asfissia per inalazione di fumo e a scontri tra i detenuti.

L’uso arbitrario e violento della forza da parte delle forze di sicurezza iraniane e dalle guardie carcerarie contro prigionieri reclusi e senza alcuna possibilità di fuga da un incendio, offre un’altra prova dell’estrema brutalità con cui le autorità iraniane schiacciano abitualmente il dissenso. Se non ci sarà una risposta forte da parte della comunità internazionale alla crescente crisi d’impunità per crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani in Iran, il numero delle vittime continuerà a crescere.

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite deve convocare urgentemente una sessione speciale sull’Iran e istituire un meccanismo indipendente con funzioni d’indagine, di documentazione e di accertamento delle responsabilità sui crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità iraniane. Il meccanismo dovrebbe condurre indagini su tali crimini e violazioni con lo scopo di accertare le responsabilità, in particolare quando le violazioni potrebbero rappresentare i crimini più gravi secondo il diritto internazionale. Il meccanismo dovrebbe essere dotato di risorse adeguate per raccogliere e conservare le prove e condividerle con i tribunali e gli organi nazionali, regionali e internazionali con giurisdizione su tali crimini. Le informazioni dovrebbero essere rese pubbliche e comprendere un’analisi sui modelli ripetuti di crimini e violazioni e l’identificazione dei responsabili.

I prigionieri e le loro famiglie hanno espresso gravi preoccupazioni per la loro vita e sicurezza, in particolare perché dopo il 15 ottobre le visite alla prigione di Evin sono state sospese, e hanno a loro volta espresso l’urgente necessità di un’azione forte e significativa da parte della comunità internazionale.

Viene segnalato che la direzione del carcere nega ai prigionieri feriti l’accesso all’assistenza sanitaria. Parlando con la propria famiglia, un prigioniero vittima delle violenze del 15 ottobre ha sottolineato la necessità di protezione internazionale: “Loro [le autorità] non permettono ai feriti di ricevere cure. Dicono ‘la cosa peggiore è che moriresti e non succederebbe nulla…’ Qui non c’è sicurezza… Se la gente si dimentica di noi, le autorità ci massacreranno tutti”.

Un parente di un prigioniero detenuto nella prigione di Evin ha detto ad Amnesty International: “Non abbiamo bisogno di critiche e condanne… Abbiamo bisogno di un’azione che vada oltre la condanna… Quanto ancora dobbiamo pagare?”

 

Uno spaventoso uso della forza

I prigionieri detenuti nell’edificio n. 8 della prigione di Evin hanno riferito di aver udito, a partire dalle 20 del 15 ottobre, spari e urla provenienti dall’adiacente edificio n. 7. L’edificio n. 8 ospita per lo più difensori dei diritti umani e dissidenti ingiustamente imprigionati, mentre l’edificio n. 7 è utilizzato prevalentemente per coloro che sono stati condannati per furto e reati finanziari. Amnesty International ha compreso che i prigionieri nell’edificio n. 8, preoccupati per quanto stava accadendo in quello accanto, hanno tentato di sfondare l’ingresso principale dell’edificio n. 7. In risposta, le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e pallini di metallo. Secondo un testimone oculare, le forze di sicurezza armate situate all’esterno dell’edificio n. 8 hanno sparato munizioni vere, attraverso le finestre, contro i prigionieri che si trovavano all’interno.

Le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno successivamente ammanettato numerosi prigionieri dall’edificio n. 8 e li hanno ripetutamente picchiati alla testa e al volto con i manganelli. Le forze di sicurezza hanno anche picchiato i prigionieri sulle ferite provocate dai pallini di metallo. Un prigioniero ha riportato per iscritto il racconto di un testimone oculare, ottenuto da una fonte giudicata affidabile da Amnesty International, secondo il quale gli attacchi sono stati guidati da un funzionario identificato come un colonello, che ha partecipato ai pestaggi minacciando di morte ai prigionieri urlando: “Farò piangere le vostre madri per la vostra morte. Il giorno della vostra morte è arrivato”. Secondo il racconto del prigioniero, le forze di sicurezza hanno successivamente trasferito centinaia di prigionieri nella “palestra” della prigione, che è una grande sala, e lì hanno inflitto loro ulteriori brutali pestaggi.

Anche i prigionieri detenuti nell’edificio n. 5, che contiene il reparto femminile, e nell’edificio n. 4, che ospita, tra gli altri, uomini con doppia cittadinanza e dissidenti politici detenuti arbitrariamente, hanno tentato di uscire dai loro edifici quando i rumori degli spari si sono fatti più insistenti. Le testimonianze oculari dei prigionieri in questi edifici parlano di forze di sicurezza che hanno di nuovo sparato illegalmente gas lacrimogeni. Secondo i racconti dei prigionieri, le forze di sicurezza sono entrate anche nel reparto femminile e hanno puntato le pistole alla testa di diverse prigioniere fra minacce e insulti.

Secondo le informazioni ottenute da Amnesty International, più di una decina di prigionieri dell’edificio n. 8 hanno subito dolorose ferite da pallini metallici, che non sono state curate o lo sono state in modo inadeguato. Diversi prigionieri e prigioniere fra il reparto femminile e l’edificio n. 4 hanno subito danni fisici a causa dell’esposizione ai gas lacrimogeni. Fonti intervistate dall’organizzazione hanno anche sollevato timori che le forze di sicurezza possano aver sparato munizioni vere, data la gravità delle ferite riportate da diversi prigionieri.

Dopo le violenze mortali del 15 ottobre, le autorità hanno sospeso tutte le visite al carcere di Evin, il che espone i prigionieri a ulteriori rischi di tortura e altri maltrattamenti, fra cui la negazione delle cure mediche. Dopo l’attacco, le autorità hanno trasferito decine di prigionieri dall’edificio n. 8, comprese le persone ferite, in un luogo sconosciuto e si sono rifiutate di informare le famiglie su cosa fosse capitato loro e su dove si trovassero. È emerso circa un giorno dopo, quando ad alcuni prigionieri è stato permesso di fare brevi telefonate, che erano stati trasferiti nel carcere di Raja’i Shahr, a Karaj, nella provincia di Alborz. Il destino e le condizioni di molti altri prigionieri e detenuti, compresi quelli detenuti nell’edificio n. 7, rimangono poco chiari e suscitano serie preoccupazioni per la loro sicurezza.

 

Resoconti incoerenti sulla cronologia degli eventi e sullo scoppio dell’incendio

La sera del 15 ottobre hanno iniziato a circolare online video che mostravano un incendio in una parte della prigione di Evin, che è un vasto complesso costituito da più edifici. Secondo un giornalista ed ex prigioniero di coscienza con una conoscenza dettagliata di quel carcere, l’incendio si è esteso a un edificio a più piani che contiene un laboratorio di cucito e un auditorium (di seguito edificio del laboratorio), che si trova in un’area della prigione circondata da alte mura e comprende anche gli edifici n. 7 e n. 8.

Le autorità iraniane hanno diffuso dichiarazioni contraddittorie volte ad attribuire la responsabilità dell’incendio ai prigionieri detenuti nell’edificio n. 7. In primo luogo, hanno affermato che l’incendio era scoppiato nel contesto di una rissa tra prigionieri condannati per furto e reati finanziari. Il 17 ottobre, dopo che ex prigionieri avevano dichiarato a organi d’informazione indipendenti al di fuori dell’Iran che i a quell’ora non è possibile avere accesso all’edificio del laboratorio e che erano emerse prove audiovisive dell’uso di gas lacrimogeni e granate stordenti all’interno della prigione, la narrativa ufficiale è cambiata.

Questa volta, i funzionari hanno  affermato che l’incendio era stato inizialmente causato da due o tre prigionieri che avevano tentato la fuga dando fuoco ad alcune coperte e avevano poi sfruttato il caos che ne era seguito per raggiungere e dare fuoco all’edificio del laboratorio, il che avrebbe spinto le forze di sicurezza a usare la forza per contenere la situazione. Lo stesso giorno, il capo della magistratura, Gholamhossein Mohseni Ejei, ha descritto i responsabili dello scoppio dell’incendio come “agenti del nemico… che hanno facilitato il lavoro dei centri e degli uffici sionisti, americani e britannici coinvolti nell’alimentare la guerra e generare disordini” e hanno chiesto la loro rapida incriminazione.

L’indagine di Amnesty International, tuttavia, suggerisce che, contrariamente alle affermazioni delle autorità, l’incendio sia stato successivo all’uso illegale della forza contro i prigionieri. Diversi resoconti di prigionieri e dei loro parenti indicano che le sparatorie sono iniziate intorno alle 20, un’ora e mezza prima delle 21.29, orario in cui – secondo i portavoce dei Vigili del fuoco di Teheran – era stato segnalato l’incendio.

Ulteriori lacune e incongruenze sono emerse nella narrazione ufficiale dopo l’emergere di riprese video che ritraggono diverse persone in borghese sul tetto dell’edificio del laboratorio, che alimentano l’incendio gettando sulle fiamme quella che sembra essere una sostanza infiammabile. Ex prigionieri con conoscenza diretta della prigione di Evin hanno confermato che si trattava del tetto. Hanno inoltre riferito ad Amnesty International che le porte principali degli edifici che ospitano i prigionieri sono chiuse dalle 17 alle 9 e sarebbe quasi impossibile per i prigionieri raggiungere la posizione sul tetto vista nel video. Le autorità iraniane hanno una lunga esperienza nell’utilizzo di persone in borghese nelle loro operazioni di sicurezza.

Le autorità non hanno rivelato l’identità degli otto prigionieri di cui hanno confermato la morte, limitandosi a dichiarare che erano condannati per furto, facendo intendere quindi che fossero tra i detenuti nell’edificio n. 7. Non sono stati segnalati morti o feriti tra le guardie carcerarie e le forze di sicurezza.

Secondo le immagini aeree e le riprese video dell’area interessata dall’incendio, questo sembra essere stato limitato all’edificio del laboratorio. Le informazioni ottenute da Amnesty International indicano che questo edificio non è generalmente utilizzato per ospitare i prigionieri ma in passato, durante periodi di arresti di massa a seguito di proteste come quelle che nel novembre 2019 interessarono tutto il paese, è stato temporaneamente adibito a centro di detenzione informale per centinaia di detenuti.

Al momento non sono disponibili informazioni sul fatto che ciò sia accaduto anche in occasione dello scoppio delle attuali proteste e se eventuali detenuti fossero presenti nell’edificio il 15 ottobre.

 

Mine terrestri all’interno della prigione di Evin

In un servizio scioccante del 16 ottobre, l’organo d’informazione statale Fars News ha riferito che i boati che si odono in alcuni video erano prodotti da mine terrestri la cui esplosione era stata provocata da prigionieri in fuga. Le notizie secondo le quali i prigionieri avevano calpestato le mine sono state successivamente smentite, ma le autorità non hanno negato l’uso di mine terrestri all’interno della prigione di Evin.

Un giornalista ed ex prigioniero di coscienza ha detto ad Amnesty International di aver assistito a un’esplosione, nel gennaio 2020, mentre era detenuto nell’edificio n. 8:le guardie carcerarie dissero che un gatto aveva calpestato delle mine terrestri. Ha aggiunto che le mine sono collocate sulle colline che si trovano all’interno dell’area settentrionale del complesso penitenziario e che sono visibili da alcuni ambienti dell’edificio n. 8. Amnesty International è a conoscenza di almeno altri due ex prigionieri che hanno dichiarato sui social media che è risaputo tra i prigionieri che le mine sono collocate sulle colline situate nella parte settentrionale della prigione di Evin e che loro stessi hanno sentito e/o visto esplodere mine durante la loro detenzione.

Le mine terrestri antipersona sono vietate a livello internazionale e il loro uso è proibito in ogni circostanza. L’ammissione da parte di organi d’informazione affiliati allo stato che le mine terrestri sono collocate in prossimità dei reparti carcerari rivela il totale disprezzo delle autorità iraniane per la vita umana e il diritto internazionale. È l’ennesima prova evidente che la crudeltà delle autorità, volta a mantenere il potere e il controllo, non conosce limiti e comporta l’uso sistematico della forza illegale che miete vittime.

 

Ulteriori informazioni

L’attacco ai prigionieri nella prigione di Evin ha avuto luogo durante la brutale repressione delle proteste iniziate il 16 settembre. Amnesty International ha documentato il diffuso ricorso diffuso alla forza letale da parte delle forze di sicurezza iraniane contro i manifestanti, minorenni compresi.

A causa della mancanza di trasparenza, non esistono dati ufficiali sul numero di prigionieri reclusi a Evin, ma i gruppi per i diritti umani stimano che siano migliaia. Anche prima dello scoppio delle proteste in corso nel paese centinaia di prigionieri di coscienza e altri erano stati detenuti arbitrariamente in quella prigione, esclusivamente per l’esercizio pacifico dei loro diritti umani.